Sunday 21 December 2008

I modelli mentali: il cervello e la memoria

Gli schemi mentali: i “concetti”

 

Il cervello ha degli schemi mentali, i concetti appunto, destinati ad accogliere ed ad ordinare le percezioni.

I concetti hanno varie caratteristiche:
1 - hanno caselle o variabili
2 - possono essere inclusi all’interno di altri schemi, un concetto può rimandare ad un altro concetto
3 - variano per il livello di astrattezza
4 - rappresentano delle conoscenze generali del mondo, più che definizioni di oggetti o eventi.

I concetti sono unità organizzate di conoscenze su eventi, situazioni o oggetti. Sono strutture mentali, e costituiscono gli elementi della nostra rappresentazione interiorizzata del mondo.

Gli schemi operano come sistemi di accettazione delle informazioni, inoltre funzionano daprogetto e stimolo nel raccogliere le informazioni dall’ambiente. I concetti registrano nettamente - specificano e delimitano - il campo in cui dobbiamo cercare i dati, e ci dicono quali sono leforme sotto cui è probabile che le informazioni si presentino. I concetti riducono la complessitàdel mondo, e forniscono attese percettive su ciò che probabilmente ci si presenterà.

Molti concetti sono parole e in quanto “parole” sono delle teorie relative agli oggetti, e possono essere usati per classificare situazioni mai incontrate. Proprio come le ipotesi scientifiche predicono l’esito di esperimenti, così le parole, essendo teorie relative agli oggetti, ci fanno prevedere ciò che è implicito nella parola-definizione della realtà che la mente sta esaminando in quel momento. La parola “martello” evoca un flusso di informazioni aggiuntive che mi ronzano nella testa: “Dove trovo qualcosa di simile al martello?”. Il concetto mi ronza nella testa  finchè non capisco quale delle informazioni collegate a “martello” mi può essere utile in un certo contesto.

La soluzione di problemi è spesso il risultato di un uso intelligente dei concetti. Il soggetto pensante, di fonte ad una situazione insolita, passa in rassegna tutti i nomi - tutte le parole - che conosce per spiegarsela. Tenta di attribuirle un concetto.
La maggior parte del lavoro del linguaggio verbale si compie assegnando etichette (arbitrarie per definizione) ai vari fatti dell’esperienza.


Il cervello costruisce modelli: “rimettere in ordine” una stanza

 

Il cervello costruisce modelli che costituiscono una descrizione fedele della realtà esterna, schemi che il soggetto ritiene attendibili
Il fatto che sia possibile “rimettere in ordine” una stanza, dimostra l’esistenza di un modello mentale di “stanza ordinata”, da cui far guidare le azioni.

Il sistema nervoso riflette l’esterno creando un modello interno dell’ambiente in cui vive. La realtà rivista dopo aver formulato un modello, o avendo in mente un concetto, è un riflesso dei concetti già costruiti in passato, è un riconoscimento che prevede un’attenzione alle differenze e alle somiglianze con l’archivio mentale.

L’esistenza di modelli all’interno del cervello permette, per così dire, di saggiare l’ambiente nella propria testa. Mentre si pensa, si sta scegliendo di esplorare una “rappresentazione sostitutiva”, cioè un “modello” dell’ambiente.


Concentrarsi su modelli mentali trascendendo la materialità

 

Dice Robert Pirsig in “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”:
”Si ripara una motocicletta o un qualsiasi sistema guasto, confrontandolo mentalmente con un modello di sistema funzionante. 
Facendo le giuste domande e verifiche e traendo conclusioni adeguate, il riparatore si farà strada attraverso i vari gradi della gerarchia della sistema su cui sta operando, fin quando non troverà ciò che non funziona. Si sta concentrando su immagini mentali, sul concetto di “sistema funzionante”, su gerarchie e non ancora sulla materialità della moto che non parte.

Il riparatore nel suo esplorare un “modello di moto funzionante”, può formulare un esperimento di prova. Se ipotizza che ci possano essere problemi all’impianto elettrico, sostituisce la candela.
Sta usando gli esperimenti per allargare la gerarchia della conoscenza del guasto e del problema. Così anche l’artista, il cui problema è il “quadro che ancora non esiste”, lo paragona alla gerarchia corretta che ha in testa. 
Meccanico e artista stanno guardando la forma soggiacente.
Pirsig R., Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Adelphi


Una mente è un generatore di aspettative

“Il compito di una mente è di produrre futuro”, come disse una volta Paul Valéry. Una mente è, ridotta all’essenziale, un sistema capace di anticipazione, un generatore di aspettative. Essascava nel presente alla ricerca di indizi, che poi perfeziona con l’aiuto dei materiali preservati dal passato, trasformandoli in anticipazioni del futuro
E poi agisce, il più possibile razionalmente, sulla base di queste anticipazioni conquistate al prezzo di un così duro lavoro.
Dennett, Daniel, “La Mente e le Menti”, Euroclub, pag. 69

Imporre un proprio modello inadatto alla realtà

Un errore tipico è imporre un proprio modello inadatto alla realtà
Diceva Kant: “Il nostro intelletto non trae le proprie leggi dalla natura, ma le impone ad essa”, e fin qui va bene, perchè solo in questo modo può crescere la conoscenza umana. Però bisogna tener conto che ciò non implica che le nostre deduzioni – che per necessità spesso si basano su informazioni incerte - siano necessariamente vere. 
La natura, assai spesso, si oppone molto efficacemente, costringendoci ad abbandonare le nostre ipotesi in quanto confutate, ma finchè viviamo possiamo riprovarci ancora.


Far morire i modelli mentali

 

La più grande risorsa dell’uomo è commettere errori. Attenzione: li possiamo chiamare “errori” solo quando siamo riusciti ad individuarli come tali. Un errore evitato in sede di progettazione mentale è il più economico, quello da ricercare. Un piano abortito consuma pochissima energia, e relativamente poco tempo. Importante è fare errori il prima possibile, possibilmente quando il lavoro è ancora al livello della disamina mentale o dopo un minimo di verifiche esterne. Diventa comodo allora “far morire i modelli”, saper scartare l‘idea riconoscendovi un errore prima di metterla in pratica, operando esclusivamente all’interno del cervello.

Il sistema comporta la preselezionedi tutti i comportamenti o le azioni possibili, in modo che le mosse veramente stupide vengano scartate prima di azzardarle nella «vita reale». 
I beneficiari di questa preselezione possono essere chiamati creature popperiane in quanto, come disse molto elegantemente il filosofo Karl Popper, questo miglioramento del progetto «consente alle nostre ipotesi di morire al posto nostro».
Dennett, Daniel, “La Mente e le Menti”, Euroclub, pag. 102


Il cervello filtra l’abituale ed è attento alla novità

 

Un rivelatore di insetti è un neurone apparentemente cieco a tutto tranne che a piccoli oggetti che si muovono contro lo sfondo. Appena un insetto entra nel campo recettivo di tale cellula, essa si attiva al massimo e a quel punto, probabilmente, la rana fa scattare la lingua per catturare la preda. Ma per un sistema nervoso abbastanza complesso, anche il movimento di un insetto è ridondante se si verifica su una linea retta. Una volta saputo che un insetto si sta dirigendo stabilmente verso nord, si può presumere che continui ad andare verso nord finché non si venga informati di un cambiamento. Proseguendo sul filo di questo ragionamento, sarebbe lecito aspettarsi che certi neuroni cerebrali rilevassero movimenti di un ordine superiore, ovvero che fossero particolarmente sensibili a un’alterazione del movimento, per esempio a un cambiamento nella direzione o nella velocità. In effetti, Lettvin e i suoi colleghi scoprirono nella rana una cellula nervosa che sembrava fare proprio questo.
È come se, a tutti i livelli della «gerarchia», il sistema nervoso fosse preposto a rispondere con forza all’imprevisto e a rispondere poco o nulla al previsto. 
Che cos’accade a livelli sempre più alti? 
Accade che la definizione di «previsto» si fa sempre più sofisticata. Al livello più basso, ogni punto luminoso rappresenta una notizia; a quello successivo solo i contorni vengono interpretati come novità; a quello ancora successivo, poiché molti contorni sono diritti, solo le loro estremità sono considerate informative; a quello superiore ancora, soltanto il movimento fa notizia. Poi fanno notizia unicamente le alterazioni nel ritmo o nella direzione del movimento. Come osserva Barlow, che ha preso in prestito la terminologia dalla teoria dei codici, potremmo affermare che il sistema nervoso usa parole brevi ed economiche per i messaggi previsti e frequenti, e parole lunghe e costose per i messaggi imprevisti e rari. La stessa cosa si verifica in ambito linguistico, dove (per la cosiddetta legge di Zipf) le parole più brevi del dizionario sono quelle usate più spesso nel parlato. Per dirla in termini quasi paradossali, il cervello perlopiù non ha bisogno di essere informato di nulla, perché ciò che accade è la norma e il messaggio sarebbe ridondante. Esso si difende dalla ridondanza attraverso una gerarchia di filtri, ognuno dei quali ha il compito di eliminare una specifica caratteristica prevista.
Possiamo considerare ciascun cervello un organo dotato di un archivio di immagini fondamentali, che serve a definire caratteristiche rare o comuni del mondo dell’animale. Anche se, seguendo Barlow, ho spiegato come questo archivio venga riempito attraverso l’apprendimento, non c’è ragione di escludere che la stessa selezione naturale, operando sui geni, partecipi al processo di immagazzinamento. Seguendo la logica del capitolo precedente, dovremmo dire allora che l’archivio mentale contiene anche immagini del passato ancestrale della specie; e potremmo chiamarle inconscio collettivo, se l’espressione non fosse stata inquinata dalle teorie junghiane.
Dawkins R., “L’arcobaleno della vita”, Mondatori, pag. 238


Le risorse del cervello: migliaia di subroutine

Noi abbiamo migliaia di subroutine, di procedure automatizzate, motorie o mentali, che vengono eseguite dalla mente senza grande fatica (dal palleggiare a pallacanestro, al fare una moltiplicazione a due cifre), lasciando all’attenzione - alle zone frontali del cervello - solo il compito di seguirle, diciamo, con un occhio solo.


Una bambina cieca-sorda-muta impara una nuova parola

Il passaggio dal gesto alla parola al concetto è riassumibile con un brano centrale dell’autobíografia della Keller, nata cieca-sorda-muta, a cui si comunicava digitando segni sul palmo della mano.
Il brano si riferisce al primo incontro con la maestra Anna Sullivan.
“… io giocai un po’ con la bambola, mentre la signorina Sullivan scandiva sulla mia mano la parola « b-a-m-b-o-l-a ». Subito mi interessai al gioco delle sue dita, cercando di imitarlo e, quando, finalmente, riuscii a formare correttamente la parola mi gonfiai di orgoglio e di gioia infantile. Corsi giù dalla mamma e tenendola per la mano formai le lettere della parola bambola. Non sapevo di compitare una parola, anzi, non sapevo neppure che le parole esistessero, ma muovevo le dita, imitando i gesti come una scimmia.
Nei giorni seguenti imparai a compitare in quel modo strano molte parole come: spillo, cappello, tazza, e qualche verbo come: sedere, stare e camminare. Ma mi ci vollero parecchie settimane prima di arrivare a rendermi conto che ogni cosa aveva un nome.
Un giorno, mentre giocavo con la bambola nuova, la signorina mi mise in grembo anche la mia grossa bambola di stoffa e compitò: « b-a-m-b-o-l-a » e cercò di farmi capire che la parola « b-a-m-b-o-l-a » si riferiva a tutte e due.
Pochi giorni dopo avemmo uno scontro per le parole: « t-a-z-z-a » e « a-c-q-u-a ». La signorina aveva cercato di imprimermi bene in mente che: « t-a-z-z-a » è tazza e « a-c-q-u-a » è acqua, ma io continuavo a confondere le due cose. Allora la signorina accantonò la questione, per riprenderla al momento opportuno.
La signorina mi portò il cappello ed io capii che saremmo andate a godere il tepore del sole: questo pensiero, se si può chiamare pensiero una sensazione inarticolata, mi fece saltare e sgambettare per la gioia.
Ci avviammo al sentiero che conduceva al pozzo, attratte dalla fragranza del caprifoglio che lo ricopriva. Qualcuno attingeva l’acqua, e la maestra mise la mia mano sotto il getto, poi, mentre la corrente fresca mi scorreva sulla mano, scandì sull’altra la parola « acqua », dapprima lentamente e poi sempre più presto. Io stavo lì, immobile, tutta intenta al movimento delle sue dita. All’improvviso ebbi la oscura percezione di qualcosa di dimenticato - un fremito per la ricomparsa di un pensiero sopito - e mi si svelò il mistero del linguaggio. Capii che « acqua » significava quella frescura meravigliosa che scorreva sulla mia mano. Le parole vivificatrici risvegliavano l’anima mia, la illuminavano, la allietavano, le donavano la speranza. Le barriere c’erano ancora, è vero, ma col tempo sarebbero state abbattute.
Mi allontanai dal pozzo tutta presa dall’ansia di imparare. Tutte le cose avevano un nome ed ogni nome faceva nascere un nuovo pensiero.
Tornata a casa mi sembrava che ogni oggetto che toccavo vibrasse di una nuova vita. Era perché io vedevo tutto con la strana vista che avevo appena ricevuta.
Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 129


Leggere ad alta voce ha effetti mentali diversi dalla lettura silenziosa

Sono rimasto meravigliato venendo a sapere dagli studi sulla comunicazione nel mondo antico, che la lettura in silenzio, come state facendo voi leggendo queste righe, allora fosse rarissima. Questo comportamento era usuale nel mondo antico ,per cui le biblioteche non avevano una sala di lettura, ma praticamente erano solo un deposito, mentre i libri si leggevano sotto il colonnato adiacente.
Mc Luhan citava uno studio di Jean Leclerq:
«Nel Medioevo, come nell’antichità, la gente leggeva non come oggi, principalmente con gli occhi, ma con le labbra, pronunciando quello che gli occhi vedevano, e con le orecchie, ascoltando le parole pronunciate, udendo quelle che vengono chiamate le «voci delle pagine». 
La conseguenza è ben più di una semplice memoria visiva delle parole scritte. Il risultato è una memoria muscolare delle parole pronunciate e una memoria uditiva delle parole sentite [... ]. Questa ripetuta masticazione delle parole divine viene talvolta descritta usando la tematica del nutrimento spirituale [... ]. Meditare vuol dire attaccarsi da vicino alla frase che viene recitata e soppesarne le parole per potere penetrare la profondità del loro pieno significato. Vuol dire assimilare il contenuto di un testo attraverso una sorta di masticazione che ne fa uscire tutto il sapore.»
Si ritiene che il pensiero possa trovare una sua espressione verbale sia in forma di linguaggio a voce alta (come quando un bambino parla da sé, a voce alta, mentre gioca o risolve un problema), sia nella forma ínteriorizzata. È opinione unanime che il linguaggio interiore sia la forma più avanzata, e la più tarda a comparire in età infantile, di pensiero verbale. Qui il linguaggio non è più articolato, esteso, grammaticalmente e sintatticamente organizzato, come nella espressione a voce alta. È invece contratto, senza riferimenti o esplicitazioni superflui per chi parla con se stesso. La lettura a voce alta impegna la mente in operazioni attentive (tono della voce, pronuncia, ecc.) che distolgono la corrente del pensiero dai percorsi evocati dai contenuti del testo. Le ricerche sulla lettura hanno mostrato che il lettore abile non scorre il testo lettera per lettera, parola per parola, ma segue strade diverse: ora anticipa, saltando, le parole o le righe, ora ritorna indietro, in funzione dei contenuti che gli sono noti o ignoti, in funzione delle sue aspettative e del suo interesse. Da pochi frammenti effettivamente letti, la mente può estrarre il contenuto generale
Tutto ciò non è possibile nella lettura a voce alta che richiede un’adesione completa alla sequenza fissata delle lettere e delle parole. Oggi ci sembra quasi impossibile che quando i filosofi del passato riflettevano sui testi dei loro maestri lo facessero leggendo a voce alta, imbrigliando il proprio pensiero.
Se per secoli la rappresentazione del mondo è passata attraverso l’udito, attraverso le parole, dando una struttura mentale definita a chi quella rappresentazione produce e a chi la recepisce, gradualmente è avvenuta una ristrutturazione in cui l’udito e la memoria hanno acquisito un peso diverso rispetto alla visione, che sarebbe divenuta il perno delle funzioni mentali. Mentre il linguaggio restringeva la sua funzione a strumento della comunicazione interpersonale o del deposito della memoria collettiva nei libri stampati, la visione assumeva il ruolo di strumento di creatività.

Le lettere erano maiuscole e solo intorno al III sec. d. C. comparivano le minuscole.

L’invenzione dei titoli dei libri

Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 155


Le parole per i colori

Prendiamo come esempio della trasformazione funzionale delle strutture cerebrali il caso dei colori e della scrittura, che abbiamo già esaminato precedentemente. 
Quando si denomina una certa lunghezza d’onda (« questo è rosso », « questo è giallo », ecc.) si è stabilita, tra le strutture implicate nella decodificazione dell’informazione « lunghezza d’onda » e quelle implicate nelle funzioni linguistiche, una nuova ínterazione funzionale che precedentemente non era già implicita nelle funzioni di queste strutture. Si poteva cioè percepire i colori, senza saperli denominare, e allo stesso tempo si poteva parlare, senza conoscere i nomi dei colori.
Il fatto che il bambino impari a legare le lunghezze d’onda alle parole non è un fenomeno scontato, già programmato nella memoria genetica della specie umana. È una possibilità che viene attuata per l’influenza del contesto sociale in cui il bambino cresce. Quando
vengono insegnati i nomi dei colori, si forma una connessione funzionale tra strutture che hanno già una propria funzione, questa sì geneticamente predeterminata. Rispetto a quest’ultime la nuova connessione, il nuovo « sistema funzionale » (espressione di Vygotskij e Lurija), ha un’origine sociale. Si è già affermato che la connotazione sociale è legata a fattori storici, nel senso che nella storia dell’uomo l’influenza sociale sullo sviluppo dei processi mentali è stata diversa. Così, per i colori, nelle varie culture la denominazione ha avuto un’evoluzione, da un numero ristretto di denominazioni a una gamma sempre più vasta oppure anche regressioni come nel caso dei dialetti in cui si sono persi nomi già acquisiti nella lingua da cui sono derivati. Quando il bambino apprende i nomi dei colori, e forma quindi nel suo cervello nuove connessioni di origine sociale, di fatto è influenzato da fattori più generali di carattere storico - la lingua parlata, la cultura cui appartiene - in relazione all’epoca storica in cui vive.
Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 161


La scrittura ristruttura la mente

Un sistema funzionale cerebrale di origine storica è inoltre la scrittura. Per scrivere occorre la partecipazione di varie strutture cerebrali, ciascuna delle quali ha una funzione specifica, ma nessuna ha quella della scrittura in sé. La scrittura è infatti funzione di un insieme (sistema) di funzioni che interagiscono dal momento in cui si apprende a scrivere. Senza addentrarci nella descrizione dell’organizzazione cerebrale implicata nella scrittura, basta notare come vi si richieda la partecipazione delle aree del linguaggio (si deve scrivere una parola che già si conosce per averla udita), delle aree visive (si devono conoscere i segni visivi corrispondenti all’informazione verbale uditiva), delle aree motorie (per tracciare i segni specifici sulla carta si deve attuare un programma motorio che la mano esegue). Quando il bambino impara a scrivere mette in interazione queste aree diverse. Anche qui va precisato che le aree hanno funzioni (uditive, visive, motorie) già determinate geneticamente. La nuova funzione (la scrittura) invece si sviluppa solo se il bambino cresce in un contesto sociale dove essa viene « coltivata ». Allo stesso modo che per i colori, la scrittura ha caratteristiche che variano da cultura a cultura e che richiedono un’organizzazione cerebrale spesso particolare. Si ricordino la scrittura giapponese e l’interazione funzionale cerebrale in essa implicata. Nella scrittura è ancora più evidente la storicità di un sistema funzionale cerebrale. Infatti questa nuova funzione si è sviluppata in un dato momento della storia dell’uomo. Da quel momento il cervello, in chi aveva appreso la scrittura, poteva lavorare in modo diverso.
Vi sono dunque due dimensioni della storicità del cervello umano. La prima è di lunga durata e si manifesta nelle trasformazioni che le funzioni cerebrali superiori, la mente, hanno avuto nei secoli della storia dell’uomo. La seconda riguarda le differenze tra individui di una stessa epoca. Della prima dimensione vi sono solo documenti artistici e letterari. Ho cercato di darne un esempio accennando alla grande ristrutturazione delle funzioni cerebrali occorsa col graduale avvento della scrittura, dell’alfabeto e con la supremazia del visivo sull’uditivo. Forse c’è molto da scoprire nei documenti antichi sulla mente dell’uomo del passato se sapremo interpretarli nella prospettiva giusta. 
Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 162


Il Dalai Lama, un pacifista che gioca con i soldatini

Tenzin Uyatso, il Dalai Lama del Tibet, è stato identificato a due anni di età come la quattordicesima reincarnazione del Buddha della compassione. E stato condotto a Lhasa e educato da monaci devoti che lo hanno istruito in filosofia, medicina e metafisica. Nel 1950 è divenuto il leader spirituale e secolare in esilio del popolo tibetano. Pur non avendo un potere concreto, è riconosciuto come uno statista di livello mondiale per la sola forza della sua autorità morale e nel 1989 ha ricevuto il premio Nobel per la pace. Nessun essere umano potrebbe essere più predisposto, per il modo in cui è cresciuto e per il ruolo che gli è stato affidato, ad avere pensieri nobili e puri.
Nel 1993 un giornalista del «New York Times» gli ha chiesto di parlare di sé. Il Dalai Lama ha raccontato che da ragazzo amava le armi giocattolo e specialmente il suo fucile ad aria compressa. Ora che era adulto, si rilassava guardando fotografie di campi di battaglia e aveva appena ordinato una storia illustrata in trenta volumi della Seconda guerra mondiale edita da Time-Life. Come a tutti ovunque, gli piace studiare immagini di dispositivi militari quali carri armati, aeroplani, navi da guerra, sommergibili e soprattutto portaerei. Fa sogni erotici e si sente attratto dalle belle donne, tanto che spesso deve ricordare a se stesso «sono un monaco!». Nulla di tutto ciò gli ha impedito di essere uno dei grandi pacifisti della storia. E, nonostante l’oppressione di cui è vittima il suo popolo, rimane un ottimista.
Pinker S., “Come funziona la mente”, Mondadori, pag. 557


Visualizzare un problema come immagine

 

Einstein: “Nessuno scienziato ha mai pensato per formule.” 
Lo scopritore della relatività era capace di visualizzare le grandi leggi della fisica. Si immaginò di essere seduto su un raggio di luce e di viaggiare alla velocità della luce, e iniziò a descrivere il mondo come lo vede un fotone.


L’immagine mentale attinge alla sola memoria, per questo può ristrutturarsi di continuo

Le immagini mentali sono mutevoli, facili da trasformare, sono funzionalmente informali e indefinite, non restano le stesse per molto, scorrono veloci come i fotogrammi di uno spot.
Se si chiede a se stessi cosa accade nella propria mente quando si pensa ad una “mucca”, il concetto si presenta in un contesto vuoto o puramente accidentale, e il risultato sarà variabile. L’immagine di una mucca potrebbe essere “un rettangolo allungato con una certa espressione facciale, una specie di broncio esagerato” e questa immagine visiva mentale poggia su tratti mai menzionati nella definizione della mucca.
Un concetto non ha la persistenza relativamente stabile di un oggetto. La pagina di libro è soggetta a tutte le fluttuazioni dell’attenzione e della relazione con altri miei pensieri; ma la salda base garantita dallo stimolo fisico del nero su bianco, resta finchè io lo guardo. L’immagine mentale non è ancorata ad alcuna base indipendente ed obiettiva di questo genere, e attinge alla sola memoria. È aperta all’irrompere dell’esperienza di una vita intera. 
Tornando alla mucca, basta pensare al probabile effetto delle mucche sul traffico automobilistico in India, e l’immagine comincia a precisarsi.

Pensare esige immagini, e le immagini contengono pensiero, ma in uno stadio elastico che il contesto definisce e precisa. 
Non si pensa mai usando un solo concetto; la presenza di più concetti contemporaneamente illumina la scena mentale: “mucche”, “India”, “auto”, varie parole usate insieme, cominciano a somigliare ad un pensiero degno di questo nome.
Probabilmente la mucca in mezzo al traffico manterrà la posizione del prototipo - che grosso modo potrebbe essere “animale di profilo con la testa girata verso chi guarda” - però, rispetto alla necessaria informalità del modello mentale, avrà acquisito varie caratteristiche, ad esempio saràbianca, mentre il prototipo aveva un colore indefinito.


La metafora di “riflettere”

Il termine “riflettere” ci fa venire in mente lo specchio. La coscienza, dopo aver riflettuto, è riuscita a creare un’immagine riflessa – un modello mentale – del mondo. In questi “plastici in miniatura” dentro il cervello, la coscienza può seguire gli spostamenti della selvaggina in una mappa geografica celebrale, che la coscienza è capace di visualizzare a volo d’uccello.


Visualizzare un problema come immagine

 

Einstein: “Nessuno scienziato ha mai pensato per formule.” 
Lo scopritore della relatività era capace di visualizzare le grandi leggi della fisica. Si immaginò di essere seduto su un raggio di luce e di viaggiare alla velocità della luce, e iniziò a descrivere il mondo come lo vede un fotone.


L’immagine mentale attinge alla sola memoria, per questo può ristrutturarsi di continuo

Le immagini mentali sono mutevoli, facili da trasformare, sono funzionalmente informali e indefinite, non restano le stesse per molto, scorrono veloci come i fotogrammi di uno spot.
Se si chiede a se stessi cosa accade nella propria mente quando si pensa ad una “mucca”, il concetto si presenta in un contesto vuoto o puramente accidentale, e il risultato sarà variabile. L’immagine di una mucca potrebbe essere “un rettangolo allungato con una certa espressione facciale, una specie di broncio esagerato” e questa immagine visiva mentale poggia su tratti mai menzionati nella definizione della mucca.
Un concetto non ha la persistenza relativamente stabile di un oggetto. La pagina di libro è soggetta a tutte le fluttuazioni dell’attenzione e della relazione con altri miei pensieri; ma la salda base garantita dallo stimolo fisico del nero su bianco, resta finchè io lo guardo. L’immagine mentale non è ancorata ad alcuna base indipendente ed obiettiva di questo genere, e attinge alla sola memoria. È aperta all’irrompere dell’esperienza di una vita intera. 
Tornando alla mucca, basta pensare al probabile effetto delle mucche sul traffico automobilistico in India, e l’immagine comincia a precisarsi.

Pensare esige immagini, e le immagini contengono pensiero, ma in uno stadio elastico che il contesto definisce e precisa. 
Non si pensa mai usando un solo concetto; la presenza di più concetti contemporaneamente illumina la scena mentale: “mucche”, “India”, “auto”, varie parole usate insieme, cominciano a somigliare ad un pensiero degno di questo nome.
Probabilmente la mucca in mezzo al traffico manterrà la posizione del prototipo - che grosso modo potrebbe essere “animale di profilo con la testa girata verso chi guarda” - però, rispetto alla necessaria informalità del modello mentale, avrà acquisito varie caratteristiche, ad esempio saràbianca, mentre il prototipo aveva un colore indefinito.


Desidero ringraziarla, caro signore. Per quindici anni ho sostenuto una tesi sbagliata

Ma, al di là dell’arroganza, noi scienziati se non altro partiamo dal presupposto che la scienza progredisca per confutazione delle ipotesi. Con il gusto del paradosso che gli era tipico, Konrad Lorenz, padre dell’etologia, disse una volta che gli piaceva molto smentire almeno una piccola ipotesi al giorno, prima di colazione. Passando dal paradosso alla realtà, resta vero che gli scienziati, diversamente da medici, avvocati e politici, si guadagnano il rispetto dei colleghi ammettendo pubblicamente i propri errori. Una delle esperienze più formative dei miei anni di università a Oxford la ebbi quando un visiting professor americano presentò prove che demolivano irreparabilmente la teoria cara a un anziano, autorevolissimo luminare del nostro dipartimento di zoologia, una teoria che era stata insegnata a tutti noi. Al termine della conferenza il vecchio si alzò, raggiunse a grandi passi il podio, strinse calorosamente la mano all’americano e disse con voce vibrante e sonora: «Desidero ringraziarla, caro signore. Per quindici anni ho sostenuto una tesi sbagliata». Noi applaudimmo fino a spellarci le mani. In quale altra professione si è così magnanimi quando ci si scopre in errore?
Dawkins R., “L’arcobaleno della vita”, Mondatori, pag. 34


Non vi è alcuna utilità in questo, si tratta solo di una occasione per concedermi il piacere di pensare

Citiamo dei passi da una lettera che Einstein scrisse da Berlino nella primavera del 1918 all’amico Heinrich Zangger di Zurigo. La teoria generale della relatività era già stata elaborata, ma la conferma ottenuta durante l’eclisse del 1919 e la fama mondiale erano ancora di là da venire. Il figlio maggiore di Einstein, allora quattordicenne, dimostrava un vivo interesse per l’ingegneria e la tecnologia:
«Anch’io dovevo diventare ingegnere. Ma trovai intollerabile l’idea di applicare il genio creativo a problemi che non fanno che complicare la vita quotidiana - e tutto ciò unicamente al triste scopo di guadagnare denaro. Pensare solo per il piacere di pensare, come nella musica! ... Quando non ho qualche problema particolare cui dedicarmi, mi diverto a ricostruire le prove di teoremi matematici e fisici che mi sono noti ormai da tempo. Non vi è alcuna utilità in questo, si tratta solo di una occasione per concedermi il piacere di pensare.»
Dukas H. Hoffmann B., “Albert Einstein il lato umano“, Einaudi, pag. 16


Sostituire le espressioni ripetitive con appelli a una funzione comune

Per rendere un programma potente, efficiente e in grado di evolversi è necessario: «Sostituire le espressioni ripetitive con appelli a una funzione comune». Questo principio di progettazione diviene ancora più importante nella misura in cui la funzione si complica e da una formula di una riga passa a un sottoprogramma a più stadi. Esso ha ispirato queste altre massime, tutte, si direbbe, seguite dalla selezione naturale nel progettare la nostra mente modulare a più formati.
Modularizzare.
Usare sottoprogrammi.
Far sì che ogni modulo svolga una sola funzione bene.
Assicurarsi che ogni modulo nasconda qualcosa.
Collocare input e output in sottoprogrammi.
Un secondo principio trova espressione nella massima:
Scegliere la rappresentazione dei dati che rende il programma semplice”.

(già c’è)
L’evoluzione dei diversi formati di rappresentazione usati dalla mente umana (immagini, sequenze fonologiche, alberi gerarchici, mentalese) è dovuta al fatto che consentono aprogrammi semplici (cioè stupidi demoni o omuncoli) di calcolare, a partire da essi, cose utili.
Pinker S., “Come funziona la mente”, Mondadori, pag. 99


I pensieri come le onde di colore dei calamari

Avete mai guardato un calamaro cambiare colore?
Le immagini televisive appaiono a volte su giganteschi schermi Led (sigla di «diodo a emissione luminosa»). Invece di uno schermo fluorescente che il fascio elettronico esplora da un punto all’altro, nel Led vi è un’ampia serie di piccole radiazioni luminose controllabili in maniera indipendente. Queste radiazioni luminose sono attivate o disattivate singolarmente, sicché, da lontano, l’intera matrice brilla di immagini in movimento. La pelle del calamaro è come uno schermo Led, solo che al posto dei segnali luminosi ha migliaia di minuscole borse di pigmento, ognuna delle quali è indotta dal suo muscolo a far migrare il pigmento. Come un burattinaio che azionasse con molteplici fili ciascun distinto muscolo, il sistema nervoso del calamaro controlla la forma, e quindi la visibilità, di ogni borsa.
In teoria, se i nervi che conducono ai distinti pixel di pigmento venissero intercettati e stimolati elettricamente attraverso un computer, sulla superficie del calamaro si potrebbe proiettare un film di Charlie Chaplin. Il calamaro non lo fa, ma in effetti il suo cervello controlla la rete nervosa con rapidità e precisione, e il «cinema» che appare sulla cute è spettacoloso. Onde di colore si rincorrono sulla superficie del mnllusco come nubi in un film dove le immagini fossero accelerate; e vortici si susseguono rapidi sullo schermo vivente. L’animale segnala le sue mutevoli emozioni: in un attimo il marrone scuro cede il posto a un bianco pallido e spettrale, in una veloce successione di ombreggiature fatte di strisce e punti interconnessi. Quanto a mutamento di colore, di fronte ai calamari i camaleonti appaiono meri dilettanti.
Il neurobiologo americano William Calvin è uno degli scienziati contemporanei più impegnati nello studio della natura del pensiero. Come altri prima di lui, ha ipotizzato che i pensieri non risiedano in alcuna regione specifica del cervello, ma siano moduli di attività che si susseguono sulla sua superficie: unità che, reclutando unità vicine, le trasformerebbero in popolazioni. Queste popolazioni diverrebbero il pensiero stesso e competerebbero darwinianamente con popolazioni rivali rappresentanti pensieri alternativi. Noi non vediamo tali moduli di attività, ma forse li vedremmo se i neuroni si illuminassero mentre sono attivi: in quel caso, forse, la corteccia cerebrale somiglierebbe alla superficie corporea del calamaro. Il calamaro pensa con la pelle? Quando cambia all’improvviso colore, per esempio, noi supponiamo che lo faccia perché ha cambiato umore e intende segnalare il fenomeno a un altro calamaro. Un mutamento di colore annuncia che il mollusco è passato, poniamo, dall’aggressività alla paura. È logico presumere che il passaggio da una sensazione all’altra abbia luogo nel cervello e che il cambiamento di colore sia la manifestazione visibile di «pensieri» interni esternati a scopo di comunicazione.
Dawkins R., “L’arcobaleno della vita”, Mondatori, pag. 15


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Intelligenza funzionale e significato: cosa significa pensare

Il cervello umano usa quattro formati di rappresentazione

Il cervello umano usa almeno quattro principali formati di rappresentazione. Uno è l’immagine visiva, una specie di sagoma in un mosaico bidimensionale, pittorico. 
Un altro è una rappresentazione fonologica, una stringa di sillabe che facciamo girare nella nostra mente come un tratto di nastro, prevedendo i movimenti della bocca e immaginando che suono le sillabe abbiano. Questa rappresentazione a stringa è una componente importante della nostra memoria a breve termine; interviene per esempio quando guardiamo un numero di telefono e ce lo ripetiamo a mente per il tempo che ci serve a comporlo. La memoria fonologica a breve termine dura da uno a cinque secondi e può ritenere da quattro a sette «pezzi». 
Un terzo formato è la rappresentazione grammaticale: sostantivi e verbi, proposizioni e periodi, temi e radici, fonemi e sillabe, tutti organizzati in alberi gerarchici. Queste rappresentazioni determinano ciò che entra a far parte di una frase e come si comunica e si gioca con la lingua.
Il quarto formato è il mentalese, la lingua del pensiero in cui si esprime la nostra conoscenza concettuale. Quando chiudiamo un libro, dimentichiamo quasi tutto della formulazione in parole e caratteri tipografici delle frasi e di come esse siano disposte sulla pagina. Ciò che ci portiamo dietro è il contenuto, il succo. Il mentalese è il medium che cattura il contenuto, il succo.

L’evoluzione dei diversi formati di rappresentazione usati dalla mente umana (immagini, sequenze fonologiche, alberi gerarchici, mentalese) è dovuta al fatto che consentono aprogrammi semplici (cioè stupidi demoni o omuncoli) di calcolare, a partire da essi, cose utili.
Pinker S., “Come funziona la mente”, Mondadori, pag. 99


Come attribuire il “significato”

L’analisi del comportamento umano, implica che è importante stabilire se un tale comportamento sia consapevole o inconsapevole, volontario, involontario o sintomatico. Se a qualcuno viene pestato un piede, per lui è molto importante sapere se il comportamento dell’altro è stato intenzionale o involontario. Ma l’opinione che si fa in proposito si basa necessariamente sulla suavalutazione dei motivi dell’altro e quindi su una ipotesi di ciò che passa dentro la testa dell’altro. E se anche chiedesse all’altro i motivi di quel gesto, non potrebbe certo fidarsi della risposta che riceverebbe, perché l’altro può dire che il suo comportamento è stato inconsapevole, quando invece sa bene che è stato intenzionale, o magari può dichiarare che è stato intenzionale quando in realtà è stato del tutto accidentale. Questo ripropone il problema di come attribuire il “significato”, che è senz’altro una nozione indispensabile per l’esperienza soggettiva della comunicazione con gli altri.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 37


I pensieri non hanno bisogno di essere comunicati per prodursi, ma non possono prodursi se non li si enuncia

Il discorso, benché in ogni caso «suono significante»,non è necessariamenteuna proposizione in cui siano in giuoco verità e falsità. Una preghiera è si un logos, ma non è né vera né falsa.  Dunque, implicita nell’impulso a parlare non è necessariamente la ricerca di verità, bensì la ricerca di significato. 
I pensieri non hanno bisogno di essere comunicati per prodursi, ma non possono prodursi se non li si enuncia, a bocca chiusa o a voce alta nel dialogo con altri, secondo il caso. 
La funzione di tale discorso senza voce è la ricerca di significatoDare un nome alle cose, la pura e semplice creazione di parole, è il modo dell’uomo di far proprioe disalienare un mondo al quale, dopo tutto, ognuno di noi è nato come nuovo venuto e come straniero.
Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 184


Nel mondo della mente il nulla - ciò che non esiste - può essere una causa

Nelle scienze fisiche gli effetti, in generale, sono causati da condizioni o eventi piuttosto concreti: urti, forze e così via. Ma quando si entra nel mondo della comunicazione o dell’organizzazione, ci si lascia alle spalle l’intero mondo in cui gli effetti sono prodotti da forze, urti e scambi di energia. Si entra in un mondo in cui gli ‘effetti’ (e non sono sicuro che si debba usare la stessa parola) sono prodotti da differenze. Cioè essi sono prodotti da quel tipo di ‘cosa’ che viene trasferita dal territorio alla mappa. Questa è la differenza.
Leggendo un libro, la differenza tra il bianco e il nero dell’inchiostro si trasferisce dalla carta nella mia retina; qui viene rilevata ed elaborata da quella bizzarra macchina calcolatrice che è nella mia testa.
La relazione energetica è interamente diversa. Nel mondo della mente il nulla - ciò che non esiste - può essere una causa. Una lettera che non viene scritta può ricevere una risposta incollerita.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 79

Le scuse che non porgiamo, il cibo che non mettiamo fuori per il gatto, possono essere tutti messaggi sufficienti ed efficaci, poiché zero può aver significato in un contestoe il contesto lo crea chi riceve il messaggio
Bateson G. “Mente e natura”, Adelphi, pag. 69


Vari tipi di intelligenza

 

Ci sono vari tipi di intelligenza, anche contradditori: l’intelligenza di un artigiano è diversa da quella di un diplomatico. Tutte e due sono diverse dall’intelligenza di un Van Gogh, che per un po’ finisce in manicomio. 
Il cervello non è solo l’organo della razionalità, ma anche delle emozioni. E Il sentimento ha una gran parte nelle motivazioni, fino ad indirizzare l’intelligenza verso certe direzioni e non altre.

Il falegname usa la sua intelligenza per definire un modello mentale del tavolo che deve costruire. L’ambasciatore rielabora mentalmente un trattato prima di scriverlo sulla carta. La costruzione di modelli mentali è il metodo per affrontare i problemi

Esiste infatti anche un’intelligenza diplomatica, che oltre dover essere istituzionalmente corretta e creativa, deve possedere la scienza del “dire e non dire”. Se il governo ha imposto ad un ambasciatore di essere ambiguo e di non impegnarsi in una decisione risolutiva, il diplomatico deve saper giocare con le parole non dicendo di più di quello che è autorizzato a dichiarare. (Un esempio eccellente di doppiezza comunicativa.)

Quand’è che il diplomatico esercita la sua creatività
Quando, benchè sei versioni del trattato siano state rifiutate dalla controparte, si mette a scriverne una settima, destreggiandosi con le parole, finchè non diventano accettabili per tutti e due le nazioni.


Scoprire le proprietà funzionali

L’intelligenza di ricavare un imbuto da una macchinetta del caffè: capire le proprietà funzionali

Differenze e somiglianze
Raggruppare le somiglianze in nuovi concetti
Produrre modelli e simulazioni mentali


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Dennet: rapporto mente cervello. L’azione e il linguaggio

Il falso parallelo con l’ape regina

Questo capitolo è anche un omaggio a Dennet, un atto di ossequio al grande filosofo contemporaneo che ha dimostrato impossibile il concetto di “vocina nel cervello”.

L’organizzazione di un sé umano è così meravigliosa che molti osservatori hanno pensato che anche ogni essere umano abbia  un benevolo Dittatore che governa dal Quartier Generale.
In ogni alveare e in ogni termitaio c’è, sicuramente, un’ape regina e una termite regina, ma questi individui sono più passivi che attivi, assomigliano di più ai gioielli della corona da proteggere che ai capi delle forze di protezione.
Non c’è un’ape Margaret Thatcher, una termite George Bush, un ufficio presidenziale nel formicaio.
Dennet, “Coscienza”, Rizzoli, pag. 463

Un’obiezione classica all’idea che i pensieri siano rappresentazioni interne di un’unica autorità centrale della mente, è che una rappresentazione richiederebbe un omino nella testa che la guardasse, e l’omino richiederebbe un omino ancora più piccolo che guardasse le rappresentazioni dentro di lui, e così via, all’infinito.


Non esiste una funzione mentale suprema

Non esiste un cervello del cervello, a cui tutto viene riferito e che rappresenta la sede dell‘autocoscienza.Non esiste un centro biologico del corpo. 
Se per alcune funzioni il cervello e la corteccia agiscono come centro regolatore, la stragrande maggioranza degli eventi cellulari va avanti da sé. Ciascuna cellula sa quello che deve fare e lo fa, calibrandone volta per volta la realizzazione sulla base dei segnali che giungono dalle altre cellule.
Si direbbe che ci si trovi in presenza di una sorta di armonia prestabilita che regola il comportamento delle cellule presenti nei vari distretti del nostro corpo.


L’ipotesi di un “cervello sociale”

 

Dice Gazzaniga: “Nel cervello ci sono molti sistemi paralleli. Non esiste alcun ‘generale’ in carica. Per capire tutti i comportamenti diversi, dev’esserci un sistema che interpreti e formuli teorie. Il linguaggio è strettamente connesso ad esso, ma non è la cosa stessa.
La cosa stessa è ciò a cui stiamo sforzandoci di pervenire: l’ipotesi di un “cervello sociale”.
Hooper J. Teresi D., “L’universo della mente”, Bompiani pag. 281


Osservatori per l’artiglieria

Un metafora che aiuta a chiarire l’assenza di un “Centro localizzato di direzione” del cervello, è paragonarlo all’artiglieria.
Oggi la decisionalità nello sparare con un cannone è obbligatoriamente frammentata. C’è un tenente accanto al pezzo, che ha l’autorità per dire: “Spara!”, ma sarà un sergente a tirare il grilletto.
Ma la situazione è ancora più complessa. C’è un altro ufficiale su un elicottero che comunica i dati – ad esempio: “Colpo mancato!” – dati di cui viene a conoscenza anche il comando dell’artiglieria, dove un generale tanto lontano da non sentire neppure il boato, può decidere di intensificare il fuoco.
Un altro generale – responsabile della logistica – in base a questa decisione non presa da lui, darà incarico ad un suo tenente di spostare ulteriori munizioni vicino al cannone


C’è una struttura di semi-intelligenze semi-indipendenti che agiscono di concerto

 

Non dobbiamo spiegare i processi decisionali sul modello di un ente interno che ragiona, conclude e poi ordina l’azione particolare.
Dobbiamo sforzarci di resistere alla tentazione di descrivere l’azionecome un qualcosa che sorge dagli imperativi di un unico comandante interno che svolge una parte troppo ampia del lavoro di pianificazione.

Benché siamo talvolta coscienti di eseguire elaborati ragionamenti pratici, che conducono ad una conclusione su ciò che dovremmo fare, e che sono seguiti da una decisione cosciente di fare proprio quella cosa, queste sono esperienze relativamente rare. La maggior parte delle nostre azioni intenzionali sono eseguite senza nessun preambolo del genere; e questo è un bene, poiché ce ne mancherebbe il tempo. 
L’errore comune è di suppone che questi casi relativamente rari di ragionamento pratico cosciente, costituiscano un buon modello per il resto, i casi in cui le nostre azioni intenzionali emergono da processi ai quali non abbiamo accesso. 
Dennet, “Coscienza”, Rizzoli, pag. 281


La falsa sensazione dell’esistenza di una prospettiva coerente

Afferma Dennet:
“Quando ricorro alla nozione di sé, non intendo in alcun modo suggerire che tutti i contenuti della mente siano ispezionati da un singolo osservatore e detentore, tanto meno che tale entità risieda in un unico sito cerebrale. 
Dico, nondimeno, che le nostre esperienze tendono ad avere una prospettiva coerente, come se davvero vi fosse un osservatore e detentore per la maggior parte dei contenuti, seppure non per tutti. 
Io immagino che tale prospettiva sia radicata in uno stato biologico relativamente stabile, incessantemente ripetuto. L’insieme delle rappresentazioni disposizionali che descrivono una qualsiasi delle nostre autobiografie, riguarda un gran numero di fatti categorizzati che definiscono la nostra persona: che cosa facciamo, chi e che cosa ci piace, quali tipi di oggetti usiamo, quali luoghi frequentiamo e quali azioni compiamo più spesso. 
Si può vedere questo insieme di rappresentazioni come un dossier del tipo di quelli che ben sapeva preparare la Cia o l’Fbi, salvo il fatto che non è contenuto in schedari, bensì nella corteccia cerebrale. 
Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi , pag. 325


Un comitato di homunculi relativamente ignoranti

In realtà ad ogni omuncolo – o specialista celebrale - è richiesto soltanto di reagire in pochi modi circoscritti ad alcuni dei simboli, impresa ben più semplice di quella che compie il sistema nel suo insieme. L’intelligenza del sistema emerge dalle attività dei - non tanto intelligenti - demoni meccanici dentro di esso. 
Il punto, messo per la prima volta in chiaro da Jerry Fodor nel 1968, è stato espresso da Daniel Dennett:
«Se si riesce a fare in modo che una squadra o un comitato di homunculi relativamente ignoranti, limitati, ciechi, produca il comportamento intelligente dell’intero sistema, si è fatto un progresso
Alla fine, seguitando a scomporre e a suddividere il lavoro, si arriva ad uno stato di riposta elettrica:corrente che passa o non passa. Raggiungeremo homunculi così stupidi (non dovranno far altro che rispondere sì o no, se interrogati) da poter essere, come si usa dire, «sostituibili da una macchina». 
Dallo schema si sono eliminati gli homunculi raffinati, organizzando eserciti di idioti che fanno il lavoro.»
Pinker S., “Come funziona la mente”, Mondadori, pag. 87


L’architettura della mente umana

Che posto ha l’io nell’ambito delle concezioni di Dennett? 
Dennett propone un modello basato su un “pandemonio” di operatori, in continuo a parziale contatto,freneticamente impegnati a passarsi i diversi “copioni” di ciò che sta accadendo intorno a noi: memorie, sensazioni, storie più o meno plausibili sui fenomeni che osserviamo e su cui riflettiamo, insomma una coscienza a immagine di un potente computer che continuamente passa al vaglio la realtà, esterna e interna, producendo storie congrue e incongrue che vengono mantenute in memoria e perdute, revisionate e scartate.

Nella mente ci sono canali multipli in cui vari circuiti specializzati tentano, in un pandemonio parallelo, di fare varie cose, creando man mano delle Molteplici Versioni. 
La maggior parte di queste frammentarie versioni di «narrazioni» giocano dei ruoli effimeri nella modulazione dell’attività in corso, ma qualcuna viene promossa ad ulteriori ruoli funzionali, in rapida successione, dall’attività di una macchina virtuale nel cervello. 
La serialità di questa macchina non è una caratteristica progettuale «cablata rigidamente», ma piuttosto il risultato di una successione di coalizioni di questi specialisti.
Gli specialisti fondamentali sono parte della nostra eredità animale. Non furono sviluppati per eseguire azioni specificamente umane, come leggere e scrivere, ma per evitare i predatori, schivare gli oggetti, riconoscere i volti, afferrare, scagliare, raccogliere le bacche e altri compiti essenziali. Spesso sono opportunisticamente trasferiti in nuovi ruoli, ai quali sono più o meno portati a seconda dei loro talenti originali. 
Dennet, “Coscienza”, Rizzoli, pag. 285


Un sé è un “Centro di Gravità Narrativa”

Secondo Dennet, un sé non è un punto matematico, ma un’astrazione: è un “Centro di Gravità Narrativa”. 
Come tale, svolge un ruolo singolarmente importante nell’incessante economia cognitiva di quel corpo vivente, perché, tra tutte le cose dell’ambiente di cui un corpo attivo deve farsi un modello mentale, nessuna è più cruciale del “modello di se stesso”.

Negli esseri umani queste strategie implicano soprattutto delle attività incessanti di racconto e controllo di storie, alcune fattuali e alcune fittizie. I bambini si esercitano a voce alta (si pensi a Snoopy, che dice a se stesso mentre sta seduto sul tetto della sua casetta: «Ecco l’asso della prima guerra mondiale...»). Noi adulti lo facciamo più elegantemente: prendiamo nota silenziosamente e senza sforzo delle differenze tra le nostre fantasie e le nostre narrazioni e riflessioni «serie».

Così noi costruiamo una storia definitoria su noi stessi. La traccia non è il sé, naturalmente; è unarappresentazione di un sé. Raccoglie e organizza le informazioni che miriguardano nello stesso modo in cui altre strutture nel cervello registrano le informazioni sul Texas o il gelato.
E dov’è la cosa a cui si riferiscela tua auto-rappresentazione? 
È ovunque tu sia. 
cos’èquesta cosa? 
È nulla di più, e nulla di meno, che il tuo centro di gravità narrativa.

Se tu pensi te stesso come un centro di gravità narrativa, la tua esistenza dipende dal perdurare della narrazione.
Dennet, “Coscienza”, Rizzoli, pag. 479

Ad esempio, sono in macchina tutto teso nel pensare, ma basta un colpo di clacson e il potere passa alla subroutine di “guidatore d’auto”.


La struttura che connette è una danza di parti interagenti

Rispetto a questo insieme di omuncoli, ne esiste un precedente in una riflessione di Bateson. Il filosofo americano offre la locuzione: “la struttura che connette”come sinonimo di “Io”, “me stesso”, “la mia coscienza”.
Vari specialisti cerebrali che prendono il comando a turno, e a turno si accaparrano il massimo dell’attenzione disponbile.

Dice Bateson:
“Il modo giusto per cominciare a pensare alla struttura che connette è di pensarla in primo luogo comeuna danza di parti interagenti.”
Bateson G. “MENTE E NATURA”, Adelphi, pag. 29


L’incessante riattivazione di immagini riguardanti la nostra identità

L’incessante riattivazione di immagini aggiornate riguardanti la nostra identità (una combinazione di ricordi del passato e del futuro progettato) costituisce una parte considerevole dello stato del sé.
Il secondo insieme di rappresentazioni sottese dal sé neurale è dato dalle rappresentazioni primitive del corpo di un individuo: non solo come il corpo è stato in generale, ma anche come è stato ultimamente, appena prima del processo che ha portato alla percezione dell’oggetto X. Ciò abbraccia, necessariamente, stati di fondo del corpo e stati emotivi. La rappresentazione complessiva del corpo costituisce la base per un concetto di “sé”, quasi nel modo in cui una raccolta di rappresentazioni di forma, dimensioni, colore, struttura e gusto può costituire la base del concetto di arancia. 
Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi , pag. 325


Il bisogno incessante del nostro emisfero sinistro, di spiegare azioni

 

A volte prima compiamo un’azione spontanea e non meditata, poi ci affanniamo a trovargli una giustificazione.

L’unità mentale, secondo Gazzaniga, è falsa. Il senso dell’ “Io” è un elegante lavoro di pubbliche relazioni.Il nostro sistema cognitivo non è una rete unificata con una singola intenzionalità e un singolo corso di pensiero. Una metafora più precisa è che il nostro senso della consapevolezza soggettiva sorge dal bisogno incessante del nostro emisfero dominante, l’emisfero sinistro, di spiegare azioni tratte da uno qualsiasi di una moltitudine di sistemi mentali che abitano dentro di noi.
Questa immagine della mente come non facile coalizione di sotto-menti multipleè molto in voga. Il nostro organo del pensiero viene considerato una “federazione” di sistemi neurali dotati di un grado notevole di autonomia l’uno rispetto all’altro
La misura della disunione varia da una persona all’altra. 
In ogni caso, non pare ci sia un primo motore centrale che vigili su tutto il comportamento. 
Hooper J. Teresi D., “L’universo della mente”, Bompiani pag. 284


Una mente che non ha centro

In conclusione, non è tanto importante come Dennet ha dimostrato l’inconsistenza dell’ipotesi “vocina nel cervello”, quanto il suo costringerci ad immaginare una mente che non ha centro, ma che opera al centro della mente.


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Emisfero destro del cervello e linguaggio: l’importanza del pensare in due modi

L’emisfero destro

Oggi abbamo una miglior conoscenza delle specificità dei nostri due emisferi cerebrali. Le indagini hanno rivelato in sostanza che l’emisfero destro è più portato per le abilità spaziali e per i compitisintetici, globalizzanti e ideativi, compresa la musica, mentre il sinistro è superiore nei compitiverbali, analitici e sequenziali
L’emisfero destro è molto superiore a quello sinistro nell’esecuzione di compiti che richiedano una certe capacità di vedere gli oggetti nello spazio, come nel combinare tra di loro le parti meccaniche di un congegno o semplicemente nel disegnare oggetti in tre dimensioni. 
I disegni di questo tipo eseguiti con il solo ausilio dell’emisfero sinistro appaiono puerili e rudimentali rispetto a quelli fatti con l’uso dell’emisfero destro. L’emisfero destro ha anche una piena capacità diriconoscere immagini che abbiano una valenza emotiva e di estrinsecare un‘emozione
Boncinelli Edoardo, “Il cervello, la mente e l’anima”, Mondadori, pag. 270


Perché due emisferi?

Secondo Jerre Levy: “Due emisferi assolutamente identici per funzione, sarebbero stati una puraridondanza. Non possiamo certo permetterci una tale ridondanza se dobbiamo vivere delle nostre facoltà mentali.” 
L’evoluzione costruì dunque due programmi neurali separati, l’uno accanto all’altro. La metà sinistra del cervello è sintonizzata al tempo (logica sequenziale, conteggio ecc. sono organizzati temporalmente), la metà destra allo spazio.

“Per ciascuno dei due sessi, ciascun emisfero può specializzarsi in una diversa abilità. I maschieccellono nella visualizzazione spaziale tridimensionale. L’emisfero destro femminile può essere meno specializzato per le relazioni spaziali e al tempo stesso molto specializzato per lacomprensione del significato dell’espressione facciale, utile per anticipare i bisogni di un neonato che non sa ancora parlare.
Scrive Eran Zaidel: “L’emisfero sinistro è costruttivo, algoritmico, graduale e logico. Esso trae beneficio da un’esemplificazione limitata e da un procedimento per tentativi; è in grado di imparare applicando le regole. 
L’emisfero destro, invece, non sembra imparare per esposizione a regole e a esempi. Esso ha bisogno di essere esposto a strutture ricche e associative, che tende ad afferrare come totalità.
Fa parte del carattere elusivo dell’emisfero destro il fatto che noi troviamo più facile dire ciò che non è, piuttosto che ciò che è.”
Hooper J. Teresi D., “L’universo della mente”, Bompiani pag. 274


L’emisfero destro ha abilità molto inferiori a uno scimpanzé

L’emisfero destro, non dotato del linguaggio, è, a giudizio di Gazzaniga, una lampadina assai poco luminosa; le sue abilità potrebbero essere “molto inferiori alle abilità cognitive di uno scimpanzé”. Può darsi addirittura che esso non possegga la consapevolezza di sé. 
Bogen lo considera una sorta di rivelatore di mancate corrispondenze:
“L’emisfero destro ha difficoltà a fare inferenze su eventi che vanno al di là di una semplice associazione. Se proietti la parola cane esso indica gatto. Questa è una semplice risposta associativa. Ma se proietti cane e guinzaglio, ed esso deve indicare passeggiata, non ci riesce. È una cosa troppo astratta.”

A che cosa serve allora l’emisfero destro? 
“Esso fa una quantità di cose. Prima di tutto controlla metà del corpo. Esso potrebbe anche essere una sorta di processore veloce per cose che non richiedono un’analisi verbale: entra o esci; fa’ questa cosa per imitazione. Il destro forma giudizi percettivi rapidi: scappa o attacca. 
Il destro non ha bisogno di passare per un processo analitico che richieda nomi e classificazioni, come fa l’emisfero sinistro. 
Hooper J. Teresi D., “L’universo della mente”, Bompiani pag. 281


L’emisfero destro è incapace di distinguere il nome dalla cosa designata

 

L’emisfero destro è simbolico o affettivo, ed è probabilmente incapace di distinguere il nome dalla cosa designata: certo esso non si occupa di questo genere di distinzioni. 
Accade quindi che certi tipi di comportamento non razionale siano necessariamente presenti nella vita dell’uomo. E’ un fatto che questi due emisferi operino in modo un po’ diverso l’uno dall’altro, e non possiamo sfuggire alle complicazioni che questa differenza comporta.
Con l’emisfero sinistro dominante, ad esempio, possiamo considerare con distacco una bandiera come una sorta di nome del paese o dell’organizzazione che essa rappresenta. Ma l’emisfero destro non fa questa distinzione, e considera la bandiera sacramentalmente identica a ciò che essa rappresenta. 
Bateson G. “MENTE E NATURA”, Adelphi, pag. 48


Un’eccessiva semplificazione del problema

È forte la tentazione di rappresentare l’emisfero sinistro, logico e razionale, come una sorta di “Io” e l’emisfero destro come un “Es”. 
In alcuni ambienti l’emisfero destro è trattato come un nobile selvaggio rousseauiano, traboccante di energia creativa allo stato rozzo, mentre il cervello sinistro, col suo dono della parlantina, è il cervello dell’Io. C’è stata un’eccessiva semplificazione del problema. Le persone con un cervello normale hanno due flussi di coscienza paralleli nella loro testa, ma i due si parlano l’un l’altro. 
Ma quanto spesso e attraverso quali canali? 
Non sappiamo niente in proposito. 
Hooper J. Teresi D., “L’universo della mente”, Bompiani pag. 272


La funzione narrativa

L’emisfero sinistro contiene una funzione narrativa e razionalizzante - un interprete - capace in ogni circostanza di dare un senso unitario alle percezioni e inserirle in un «racconto del presente», che si dipani con continuità. 
In questo suo sforzo di interpretazione e di razionalizzazione, l’emisfero sinistro è costretto a volte a improvvisare e a produrre false ricostruzioni, inventandosi di sana pianta un passato immediato fittizio, se non addirittura falsi ricordi. 
Tutto ciò è estraneo all’emisfero destro, molto più veridico e aderente ai significati letterali.
Boncinelli Edoardo, “Il cervello, la mente e l’anima”, Mondadori, pag. 270

Tocca al sinistro narratizzare, elaborare nel linguaggio interiore il racconto di cosa siete e di cosa state facendo in questo momento.
Torneremo più avanti a illustrare questo concetto fondamentale del narrare il presente a se stessi.


Destro. Gli effetti delle lesioni cerebrali su persone bilingui

Gli effetti delle lesioni cerebrali su persone bilingui o poliglotte variano a seconda del singolo caso, della singola storia. Solo di recente è stato messo un po’ d’ordine nello studio del « cervello bilingue » (Albert e Obler) rivedendo sia tutta la casistica dell’afasia (disturbo del linguaggio) nei poliglotti sia gli esperimenti su soggetti normali. Un dato rilevante è che una lesione dell’emisfero destro produce disturbi del linguaggio solo nell’1-2% dei monolingui, ma ben nel 10% dei bilingui. L’emisfero destro risulta quindi importante, un ausilio fondamentale per l’acquisizione e l’espressione di una nuova lingua. Anzi sembra che esso possa essere dominante per una lingua, mentre il sinistro lo è per un’altra.
Esemplificativo il caso di un uomo d’affari tedesco che parlava, oltre alla lingua materna, il
francese, l’inglese, lo spagnolo e il russo. A quarant’anni rimase ferito all’emisfero sinistro e manifestò disturbi nel linguaggio. Con sorpresa, però, la prima lingua che riacquistò fu l’inglese, una lingua che non parlava da vent’anni, e solo dopo ricominciò a usare lo spagnolo e il tedesco; a quel punto l’inglese divenne più povero della lingua materna. Altri individui invece recuperano prima la vecchia lingua materna, anche se da tempo non la usavano più. Nel cervello dei poliglotti l’intreccio dei circuiti è sicuramente molto complesso. Roman Jakobson, uno dei maggiori linguisti contemporanei, ha ricordato come dopo un incidente d’auto « senza alcuna necessità e in modo automatico » traducesse simultaneamente in quattro e cinque lingue tutto quello che pensava. I circuiti di quel cervello, profondo conoscitore di molte lingue, dovevano essere impazziti.
Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 33


I due emisferi trasferiscono il lavoro della percezione come due staffettisti che si passano il testimone

Secondo diverse teorie sul funzionamento del cervello, alla base dell’unità della percezione e dell’azione vi è un processo cooperativo globale. 
La maggior parte degli psicofisiologi conviene che esiste necessariamente una coordinazione diffusa, quale che sia la sua forma. Jack Pettigrew esprime questo parere sulla base di alcune ricerche sulla rivalità binoculare. Quando si domanda di guardare due immagini diverse contemporaneamente, una per occhio, i soggetti riferiscono di vedere l’una o l’altra, ma non entrambe, con le immagini percepite che si alternano sporadicamente. In precedenza, gli studiosi ne avevano concluso che il talamo seleziona la corteccia visiva da attivare, ma Pettigrew ha mostrato che tutto l’emisfero, da una parte come dall’altra, è coinvolto globalmente in ogni avvicendamento, come se i due emisferi trasferissero il lavoro della percezione dall’uno all’altro come due staffettisti che si passano il testimone.
Freeman W., “Come funziona il cervello”, Einaudi, pag. 137


Il cervello ha un’organizzazione modulare, parallela

È sciocco discutere se il cervello sia seriale o parallelo perché è ovvio che il sistema dev’essere seriale sotto certi aspetti e parallelo sotto altri.
Si pensi a un computerSe si perde un bitsi può perdere tutto. Ma io posso mostrarvi persone che hanno perso estese regioni del loro cervello, eppure sono capaci di leggere il “Times”.
Se il cervello fosse organizzato come un sistema seriale generale, una lesione, in qualsiasi regione, avrebbe effetti devastanti.”
Hooper J. Teresi D., “L’universo della mente”, Bompiani pag. 281


Via: www.ilpalo.com

Emozioni, cuore, cervello: studio emotivo della comunicazione

Non soffriamo per i fatti in sé, ma per il significato che attribuiamo a essi

L’essere umano è un costruttore attivo della propria esperienza. Quindi non soffriamo per i fatti in sé, ma per il significato che attribuiamo a essi. Per fortuna, abbiamo sempre la possibilità di costruire significati diversi. 
Arrivare a questa elaborazione alternativa è lo scopo della psicoterapia, che sviluppa la capacità del paziente di riconoscere e correggere le cognizioni negative, pessimistiche, e gli errori logici che gli sono ormai connaturati. Corregge gli errori che il paziente ha fatto suoi nel tempo e di cui si serve in modo automatico per «leggere » la realtà e interagire con essa.
Cassano G. S. Zoli, “E liberaci dal male”, Longanesi, pag. 101


Caratteristica principale delle attività della mente è la loro invisibilità

 

Per quel che riguarda le emozioni, la mente – l’entità preposta alla soluzione dei problemi - può essere vista in contrapposizione con una parola ormai desueta e insolita nelle ricerche sulla coscienza: l’anima, l’entità coinvolta nelle passioni.
Dice Hannah Arendt in “La vita della mente”:
“La caratteristica principale delle attività della mente è la loro invisibilità
La mente è decisamente altro dall’anima. L’anima, da cui sgorgano le nostre passioni, i nostri sentimenti e le nostre emozioni, è un vortice più o meno caotico di eventi che noi non mettiamo in atto, ma patiamo– il nostro carattere ci domina - e che in circostanze di forte intensità possono travolgerci, come avviene con il dolore o il piacere. 
L’invisibilità dell’anima assomiglia a quella degli organi interni del corpo, di cui avvertiamo la disfunzione senza essere in grado di controllarli.

La vita della mente, al contrario, è pura attività, un’attività che, alla stregua delle altre, può essere avviata o interrotta a volontà. 
Per di più, quantunque la loro sede sia invisibile, le passioni posseggono una propria espressività: si arrossisce per la vergogna, si impallidisce di paura, si può avere l’aria abbattuta, ed è necessario un notevole auto-controllo per impedire alle passioni di mostrarsi. 
Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 155


Le immagini corporee conferiscono alle altre immagini una qualità - di buono o di cattivo, di piacere o di dolore

Le emozioni ci fanno intravedere che cosa accade nella nostra carne. Per giustapposizione, le immagini corporee conferiscono alle altre immagini una qualità: di buono o di cattivo, di piacere o di dolore.
Dice Damasco:
“Per me i sentimenti hanno uno status davvero privilegiato. A motivo dei loro inestricabili legami con il corpo, essi vengono prima, nello sviluppo, e serbano un primato che pervade la nostra vita mentale. Dal momento che il cervello è l’avvinto uditorio del corpo, i sentimenti risultano vincitori tra pari. Inoltre, dal momento che ciò che viene prima costituisce un quadro di riferimento per ciò che viene dopo, isentimenti hanno voce in capitolo sul modo in cui il resto del cervello e la cognizione svolgono i propri compiti. La loro influenza è immensa.”
Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi , pag. 228


Un sentimento dipende dalla giustapposizione di un’immagine del corpo all’immagine di qualcosa d’altro

L’essenza della tristezza o della felicità è la percezione di certi stati del corpo combinata con quella deipensieri - quali che siano - a cui essi sono giustapposti, e integrata da una modificazione - in modi e in efficienza - del processo di pensiero. In genere essi tendono a concordare, poiché sia il segnale dello stato corporeo (positivo o negativo) sia la modalità e l’efficienza della cognizione sono stati innescati dallo stesso sistema. 
Con gli stati corporei negativi, la generazione di immagini è lenta, esse differiscono poco e ilragionamento è inefficiente; con gli stati positivi, la generazione di immagini è rapida, esse sono molto differenziate e il ragionamento può essere veloce, anche se non necessariamente efficiente. Quando gli stati corporei negativi si ripetono spesso, o nel caso di un forte stato negativo, come accade nella depressione, aumenta la quota di pensieri che è probabile siano associati a situazioni negative, e il modo e l’efficienza del ragionamento ne soffrono.

Un sentimento dipende dalla giustapposizione di un’immagine del proprio corpo all’immagine di qualcosa d’altro, come ad esempio l’immagine visiva di un volto o l’immagine uditiva di una melodia. 
L’idea che il “caratterizzato” (un volto) e il «caratterizzante» (lo stato corporeo giustapposto) siano combinati, ma non fusi, aiuta a spiegare perché è possibile sentirsi depressi anche quando si pensa a persone o situazioni che non significano in alcun modo tristezza o perdita, o sentirsi di buon umoresenza alcuna ragione immediata che lo spieghi.

Gli stati caratterizzanti possono essere inattesi. I caratterizzanti inesplicabili affermano la relativaautonomia dell’apparato neurale che agisce dietro le emozioni; ma essi ci ricordano anche che esiste un ampio dominio di processi non consci, in parte riconducibili a una spiegazione psicologica ma in parte no.

Damasio ritiene che nelle decisioni venga mentalmente consultato il sistema di immagazzinamento delle informazioni sulle ricompense e le punizioni ricevute in precedenza
Sono informazioni successivamente utilizzate per stimolare le intuizioni, che poi entrano a far parte dei normali processi decisionali delle persone. Tutto ciò ha senso, poiché è chiaro che l’intuizione è un pilastro indispensabile dell’edificio della creatività umana. 
Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi , pag. 213


L’intuizione è radicata nella memoria emozionale

L’intuizione, che opera in assenza di ragionamento conscio è radicata nella memoria emozionale. Sembra che l’intuizione abbia un ruolo importante anche nella maturazione delle decisionirazionali.

Quando un individuo prende una decisione, il suo cervello non si limita a utilizzare un algoritmo standard che analizza i dati e genera la soluzione ottimale. Al contrario, la valutazione dei dati è integrata dall’immissione di altri input d’ogni genere. Sono valutazioni di tipo emotivo che possono variare da un generico disagio o da una generica sicurezza alla vera propria paura, o essere semplicemente lafastidiosa sensazione che entrambe le decisioni potrebbero essere giuste (o sbagliate). 
La conclusione circa le decisioni da prendere, sebbene sia stata raggiunta ponderando i fatti, può non essere del tipo che l’individuo è in grado di razionalizzare verbalmente; o, se può farlo, può trattarsi semplicemente di questo: una razionalizzazione.

Anche la scienza — compendio delle attività razionali umane — lo conferma. Infatti, mentre vanta di mettere obiettivamente alla prova ipotesi emerse da osservazioni accuratamente raccolte, non tiene conto del fatto che le ipotesi iniziali sono molto spesso il prodotto di un’intuizione, e non di un ragionamento verbalmente fondato. L’intuizione è dunque un mediatore indispensabile dei nostri processi di pensiero
Tattersal T., “Il cammino dell’uomo”, Garzanti, pag. 191


La conoscenza di sé è pericolosa

Una mente desiderosa di modificare se stessa può trarre vantaggio dal conoscere il proprio funzionamento, ma questa conoscenza potrebbe altrettanto facilmente spingerci a provocare la nostra rovina, se fossimo in grado di frugare con le nostre goffe dita mentali nei complicati circuiti che costituiscono la macchina della mente. 
Si pensi alla facilità con cui intraprendiamo rischiosi esperimenti capaci di modificarci; alla fatale attrazione che esercitano su di noi gli stupefacenti, la meditazione, la musica e anche la conversazione, tutte passioni fortissime capaci di modificare la nostra personalità più profonda. Si pensi al cieco entusiasmo con cui inseguiamo ogni promessa di superare i confini del normale godimento.
Se potessimo assumere deliberatamente il comando dei nostri sistemi del piacere, potremmo riprodurre il piacere del successo senza bisogno di raggiungere alcun risultato. E questa sarebbe la fine di tutto.
Minsky Marvin, "La società della mente", Adelphi, pag. 124  

Che cosa impedisce tali interferenze? La nostra mente è vincolata da molte autocostrizioni. Ad esempio, ci riesce difficile stabilire che cosa accade nella mente. Anche se il nostro occhio interiore potesse vedere che cosa c’è dentro, ci sarebbe singolarmente difficile modificare gli agenti che più ci piacerebbe modificare, cioè quelli che nella nostra infanzia hanno contribuito a foggiare i nostri autoideali più duraturi.
Questi agenti sono difficili da modificare a causa della loro particolare origine evolutiva. La stabilità a lungo termine di molte altre agenzie mentali, dipende dalla lentezza con cui modifichiamo la nostra immagine di come dovremmo essere.

Secondo le teorie di Freud, lo sviluppo di ogni individuo è governato dal suo bisogno inconscio di compiacere, di placare, di contrastare o di eliminare le proprie immagini dell’autorità parentale. Se riconoscessimo l’influenza di quelle vecchie immagini, tuttavia, forse le considereremmo troppo infantili o troppo meschine per poterle tollerare, e cercheremmo di sostituirle con qualcosa di meglio. 
Minsky Marvin, "La società della mente", Adelphi, pag. 124


Il voto del corpo quando c’è da prendere una decisione

Esiste una saggezza, riguardante soprattutto le preferenze, inclusa nel resto del corpo. Usando questi antichi sistemi corporei il sistema nervoso centrale può essere guidato — a volte con un colpetto del gomito, a volte con mezzi più violenti — verso politiche sagge. A tutti gli effetti, la questione de decidere viene messa ai voti: il voto del corpo.

Quando tutto va bene, le varie fonti di saggezza del corpo cooperano; conosciamo fin troppo bene, però, i conflitti che possono scaturire dalla curiosa affermazione «Il mio corpo ha una mente sua!». A volte, sembra allettante riunire alcune delle informazioni in esso contenute in una mente separata.
Perché? 
Perché la mente del corpo è organizzata in modo tale che a volte può compiere delle discriminazioni, tenere conto di preferenze, prendere decisioni e mettere in atto politiche in qualche modo indipendenti e in competizione con la tuamente. 
Il tuo corpo può tradire i segreti che tu stai disperatamente cercando di mantenere, ad esempioarrossendo o tremando o sudando, solo per menzionare i casi più ovvi. 
Esso può «decidere» che, nonostante i tuoipiani ben preparati, ora ci vorrebbe proprio un po’ di sesso, non tutte queste discussioni intellettualiIn un’altra occasione, con tua massima mortificazione e frustrazione, quello stesso corpo potrebbe mandare a vuoto i tuoi sforzi di arruolarlo per una notte brava, costringendoti ad alzare la voce, ad arrabattarti tentando tutti i sistemi di persuasione più assurdi per convincerlo.
Ma allora perché, se il nostro corpo aveva già una mente sua, è andato acquisendo un’altra mente, lanostra, quella che denominiamo “coscienza”?Non basta forse una mente per ogni corpo? 
Non sempre. 
Come abbiamo visto, le antiche menti del corpo hanno compiuto un grosso lavoro nel tenere per miliardi di anni la vita aggrappata alle membra; il loro potere discriminatorio, tuttavia è relativamente lento e grezzo. La loro intenzionalità è a breve raggio e può essere ingannata facilmente. Per un impegno più sofisticato nel mondo, è necessaria una mente più veloce e lungimirante, una coscienza che – riflettendo - possa produrre non solo più futuro, ma anche un futuro migliore.
Dennett, Daniel, “La Mente e le Menti”, Euroclub, pag. 94


Il cervello pensoso del corpo

Le rappresentazioni che il cervello costruisce per descrivere una situazione, e i movimenti elaborati come risposta, dipendono da mutue interazioni tra corpo e cervello. Via via che il corpo cambia, per influenze chimiche e neurali, le rappresentazioni che il cervello ne costruisce si evolvono; alcune rimangono non consce, mentre altre raggiungono la coscienza. Allo stesso tempo, al corpo continuano adaffluire segnali provenienti dal cervello, alcuni in modo deliberato e altri in modo automatico, provenienti da settori del cervello le cui attività non hanno rappresentazione diretta nella coscienza. Il risultato è che il corpo si modifica ancora, e quindi si modifica l’immagine che se ne ha.
Se il cervello si è evoluto in primo luogo per assicurare la sopravvivenza del corpo, allora quando comparvero cervelli dotati di mente essi cominciarono con il por mente al corpo. La natura si imbatté in una soluzione molto potente: rappresentare il mondo esterno in termini di modificazioni che esso provoca nel corpo, cioè rappresentare l’ambiente modificando le rappresentazioni primordiali del corpo ogni volta che si ha un’interazione tra organismo e ambiente.
Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi , pag. 313


Quando ebbe origine il linguaggio, l’emisfero destro doveva già occuparsi delle risposte emozionali

Quando ebbe origine il linguaggio, l’emisfero cerebrale destro doveva occuparsi giàmassicciamente dell’osservazione e del controllo delle risposte emozionali
È il comportamento emozionale di un altro animale a dirci quali siano le sue intenzioni: essere in grado dileggere correttamente tali segnali, e di reagire a essi con una risposta ugualmente ispirata dalle emozioni, è l’essenza della vita sociale delle scimmie. 
Dunbar R., “Dalla nascita del linguaggio alla Babele delle lingue”, Longanesi, pag. 173


Via: www.ilpalo.com

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