Saturday 20 December 2008

Comunicazione e ruoli che si recitano

La tecnica della comunicazione efficace

La comunicazione ha un unico comandamento, da cui discendono prassi e metodologie comunicative. 
Eccolo:
«Non si dice “Tu non hai capito.” Ma: “Io mi sono spiegato male”.»

Quello che conta è mettersi nel “punto di vista utente”, porsi dalla parte di chi riceve informazioni, e calibrare le informazioni e il modo di esporle non sulle volontà di chi esprime la comunicazione, ma sulle caratteristiche del ricevente.
Bisogna quindi individuare la griglia di analisi della realtà preferita da quello specifico ricevente, e poi dirigere la nostra attenzione alle informazioni indirette provenienti dal ricevente. 
La comunicazione è un fenomeno totale. Comprende la comunicazione non verbale, l’atteggiamento che può trasparire da una comunicazione inadeguata, l’efficacia delle immagini, dei gesti, dell’espressione del viso, della postura. Include la scelta delle parole: il vocabolario di base, i sinonimi, le figure retoriche.
Rispetta le esigenze informative: praticità, concisione, chiarezza esplicativa. È attenta a cosa può stimolare la curiosità della controparte.

È sempre ciò che l’altro può capire l’aspetto fondamentale, e mai “ciò che effettivamente abbiamo detto noi”. 
La responsabilità dell’efficacia della comunicazione è tutta in chi ha emesso la comunicazione. Per principio l’interlocutore va sempre assolto. Se non è riuscito a capire perfettamente quello che voi avevate intenzione di comunicare, l’ascoltatore è sempre “innocente fino a prova contraria”. Chi emette il messaggio deve avere il massimo interesse a renderlo chiaro. Nessuna colpa può cadere sul ricevente.

Ecco qui un motivo in più per prestare un’estrema attenzione a quello che si comunica in ogni sua forma o linguaggio. 
Si tratta di andare verso un controllo totale  della comunicazione.


Ci sono più linguaggi di comunicazione

Ognuno dei linguaggi usati nella comunicazione – suoni, parole, immagini - nell’azione di decodifica da parte del recettore, viene trasformato consciamente o inconsciamente in un altro: ilmessaggio viene tradotto.

A complicare il quadro ci sono anche “linguaggi del corpo” (del tipo: «costui “a pelle” già mi sta antipatico»), un universo semantico di significati che si affianca a quello verbale – decodificato dalle orecchie - e a quello iconografico percepito dall’occhio.
Non ci è del tutto chiaro come ricaviamo – dal comportamento non verbale dell’interlocutore –giudizi che “a pelle” ce lo fanno sentire antipatico o simpatico, ostile o disponibile, eppure questa analisi e successiva deduzione avviene ogni giorno più volte al giorno.


La “Triste Storia”: come ognuno se la racconta

Noi dipendiamo dalla nostra autostima e dalla stima che gli altri ci riservano. Questa tendenza al mantenimento della propria dignità agli occhi degli altri è fortemente istituzionalizzata nei luoghi del “disagio mentale”. 
Spiega Ervin Goffman in “Asylum”:
«Nelle cliniche psichiatriche i pazienti forniscono spontaneamente una versione relativamente accettabile del loro ricovero, accettando a loro volta — senza domande indiscrete — le versioni fornite dagli altri. Vengono raccontate e apertamente accettate storie come queste:
“Frequentavo la scuola serale perché volevo laurearmi e, contemporaneamente, lavoravo. L’impegno è stato troppo per me.”
Oppure:
“Fallii come bambino e più tardi, con mia moglie, cercai un rapporto di dipendenza.”
O ancora:
“Gli altri qui sono malati di mente. Ma io ho solo un esaurimento nervoso ed è per questo che ho queste fobie.”

Il che ricorda una delle classiche funzioni sociali dei rapporti informali fra persone dello stesso livello, rapporti che servono da auditorio reciproco per storie costruite a sostegno della propria rappresentazione di sé.
Inoltre, non sempre c’è, fra i degenti, un grado di solidarietà sufficiente ad impedire che l’uno discrediti l’altro. Un paziente chiedeva ripetutamente ad un compagno:
« Se sei così in gamba, come mai sei capitato qui? »
Il personale ha tutto da guadagnare screditando la versione raccontata dal degente, qualunque sia il motivo che lo spinga a farlo. Se la finalità dell’ospedale è riuscire a controllare la situazione giornaliera senza lamentele o richieste da parte del degente, risulterà utile fargli notare che i diritti che reclama e sui quali razionalizza le sue pretese, sono falsi; che egli non è ciò che dice di essere, e che in effetti non è altro che un fallito. Se i medici vogliono convincere il paziente della loro interpretazione psichiatrica, devono essere in grado di dimostrare come la versione da loro data del passato e del carattere del paziente, sia molto più reale della sua. 
Le complicazioni causate da un paziente sono dunque strettamente legate alla versione che egli dà di ciò che gli è accaduto, e se si vuole che sia collaborativi, è necessario che questa versione venga screditata. Il degente deve arrivare a convincersi «interiormente» ad accettare il giudizio che l’ospedale ha su di lui.
Il personale dispone poi di mezzi per rifiutare le ragioni del degente.» 
Goffman Ervin, “Asylum”, Edizioni di Comunità, pag. 185


Recitiamo meglio di quanto pensiamo

Quando un individuo assume una nuova posizione nella società e gli vien data una nuova parte da recitare, è probabile che non riceva chiare indicazioni sul come comportarsi. In genere, gli vengono dati solo pochi accenni, indicazioni e ordini di scena, e si presume che egli possegga già nel suo repertorio un gran numero di pezzi di rappresentazioni che saranno richiesti nel nuovo copione. L’individuo avrà già una discreta idea di che cosa siano la modestia, la deferenza, l’indignazione giustificata e potrà cavarsela recitando questi brani quando sarà necessario [ad esempio quando è stato appena assunto in un’azienda]. 
Insomma, tutti recitiamo meglio di quanto pensiamo di farlo.
Goffman Erving, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, pag85


Siamo indotti a certe scelte dal desiderio di piacere a noi stessi o di stabilire un esempio

Dice un proverbio:
“L’uomo coraggioso è colui che ha deciso che la paura non è quanto vuole mostrare”. 
Siamo indotti a certe scelte dal desiderio di piacere a noi stessi o di stabilire un esempio, cioè dal desiderio di persuadere gli altri ad apprezzare ciò che piace a noi. Qualunque sia il motivo, il successo e il fallimento dell’operazione di autopresentazione dipendono dallacoerenza, e perciò dalla durata, dell’immagine che in questo modo presentiamo al mondo.
Ogni virtù comincia quando le rendo un omaggio, con il quale esprimo il mio compiacermi di essa. L’omaggio implica una promessa al mondo, a coloro cui io appaio, di agire in armonia con questo compiacermi, ed è l’infrazione di questa promessa implicita che caratterizza l’ipocrita. La prova che rivela l’ipocrita è l’antico motto socratico «Sii quale desideri apparire», che significa appari sempre come desideri apparire agli altri anche se ti capita di esser solo e di non apparire che a te stesso
Nel prendere tale decisione, non mi trovo semplicemente a reagire a questa o a quella qualità datami in sorte: sto compiendo un atto di scelta deliberata tra le molteplici potenzialità di condotta che il mondo mi offre.
Hannah Arendt, “La vita della mente”, Il Mulino, pag. 118


Il sé emerge da una situazione sociale, è inutile cercarlo all’interno della persona stessa

 

L’immagine di se stessi è creata mediante il rituale di presentarsi e di esibirsi di fronte agli altri. I rituali dell’interazione sono gli strumenti con cui queste identità sono costruite localmenteIn breve, l’identità non è qualcosa di stabile e duraturo nel tempo (sia pure sottoposto a sviluppo), ma un effetto strutturale prodotto e riprodotto discontinuamente nei vari balletti rituali della vita quotidiana. 
Dice Goffman:
Il sé... non è qualcosa di organico che abbia una sua collocazione specifica, il cui principale destino sia quello di nascere, maturare e morire; è piuttosto un effetto drammaturgico che emerge da una scena che viene rappresentata.”
Il sè non è inerente alla persona, ma emerge da una situazione sociale, è inutile cercarlo all’interno della persona stessa. È meglio cominciare a lavorare dall’esterno dell’individuo verso l’interno, che viceversa.” 
Goffman Erving, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, pag. XVI


La comunicazione umana consente tre possibili reazioni: conferma, rifiuto, disconferma

 

A livello di relazione, gli individui non comunicano su fatti esterni alla relazione, ma definiscono la relazione e implicitamente se stessi
Tali definizioni si dispongono gerarchicamente secondo il grado di complessità. Scegliamo, in modo del tutto arbitrario, di iniziare il nostro discorso con questa ipotesi: la persona “A” dà la definizione di sé stesso a “B” . 
“A” può farlo in diversi modi, ma qualunque cosa comunichi e comunque la comunichi a livello di contenuto, il prototipo della sua comunicazione sarà:
Ecco come mi vedo”.

La comunicazione umana consente tre possibili reazioni da parte di “B” alla definizione che “A” ha dato di sé; e tutte e tre sono di grande importanza per la pragmatica della comunicazione umana.

Conferma

“B” può accettare (confermare) la definizione che “A” ha dato di se. E’ emerso dalle ricerche sulla comunicazione che la conferma del giudizio che “A” ha dato di sé da parte di “B” è probabilmente il più grande fattore singolo che garantisca lo sviluppo e la stabilità mentali. 
Per quanto sorprendente possa sembrare, senza l’effetto che produce la conferma del Sé, è difficile che la comunicazione umana avrebbe potuto svilupparsi oltre i confini assai limitati degli scambi indispensabili per la difesa e la sopravvivenza; sarebbe mancata ogni ragione di comunicare per il mero amore di comunicare. 
Ma, del tutto indipendentemente dal mero scambio di informazione, ci pare che l’uomo debbacomunicare con gli altri per avere la consapevolezza di sé
Scrive Martin Buber:
“Praticamente, sia pure con diverse scale di valori, i membri della società umana — a tutti i livelli — si confermano reciprocamente le loro qualità e capacità personali; e una società si può dire che è umana, nella misura in cui i suoi membri si confermano tra di loro.”
E’ uno solo il principio su cui si basa la vita associata degli uomini anche se sono due le forme in cui si manifesta: il desiderio che ogni uomo ha che gli altri lo confermino per quello che è, o magari per quello che può divenire; e la capacità (che è innata nell’uomo) di poter confermare i suoi simili come essi desiderano.

Rifiuto

La seconda possibile reazione di “B” alla definizione che “A” ha dato di sé, è quella di rifiutarla. Ma il rifiuto — non importa quanto possa essere doloroso — presuppone il riconoscimento, sia pure limitato, di quanto si rifiuta, e quindi esso non nega necessariamente la realtà del giudizio di “A” su di sé. Anzi, certe forme di rifiuto possono essere costruttive, come ad es. il rifiuto dello psichiatra di accettare la definizione che il paziente ha dato di sé nella situazione di transfert, in cui è possibile che il paziente cerchi di imporre il suo ‘gioco di relazione al terapeuta.

Disconferma

La terza possibilità è probabilmente la più importante sia per la pragmatica della comunicazione umana che per la psicopatologia. E’ il fenomeno della disconferma che è del tutto diverso da quello del rifiuto totale delle definizioni che gli altri danno di sé.
La disconferma (che osserviamo nella comunicazione patologica) non si occupa più della verità o della falsità della definizione che “A”  ha dato di sé, ma piuttosto nega la realtà di “A” come emittente di tale definizione. In altre parole, mentre il rifiuto equivale al messaggio “Hai torto”, la disconferma in realtà dice “Tu non esisti “. 
O, per usare termini più rigorosi, se paragonassimo la conferma e il rifiuto del Sé altrui rispettivamente ai concetti di verità e falsità, in tal caso dovremmo far corrispondere la disconferma al concetto di indecidibilità che — come è noto — è di un ordine logico diverso.

Per citare Laing:
“Si ricava dallo studio di famiglie di schizofrenici un modello caratteristico: il figlio non è stato molto trascurato né ha subito un forte trauma; è la sua autenticità che è stata mutilata senza tregua anche se in modo indefinibile e spesso del tutto involontario.”

Si compie l’atto conclusivo di questo processo quando — trascurando completamente come il soggetto agisce, cosa prova, che senso dà alla sua situazione — si denudano di ogni valore i suoi sentimenti, si spogliano i suoi atti delle motivazioni, intenzioni e conseguenze, si sottrae alla situazione il significato che ha per lui — e così egli è totalmente mistificato e alienato. 
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 79


Via: www.ilpalo.com

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