Sunday 21 December 2008

Dennet: rapporto mente cervello. L’azione e il linguaggio

Il falso parallelo con l’ape regina

Questo capitolo è anche un omaggio a Dennet, un atto di ossequio al grande filosofo contemporaneo che ha dimostrato impossibile il concetto di “vocina nel cervello”.

L’organizzazione di un sé umano è così meravigliosa che molti osservatori hanno pensato che anche ogni essere umano abbia  un benevolo Dittatore che governa dal Quartier Generale.
In ogni alveare e in ogni termitaio c’è, sicuramente, un’ape regina e una termite regina, ma questi individui sono più passivi che attivi, assomigliano di più ai gioielli della corona da proteggere che ai capi delle forze di protezione.
Non c’è un’ape Margaret Thatcher, una termite George Bush, un ufficio presidenziale nel formicaio.
Dennet, “Coscienza”, Rizzoli, pag. 463

Un’obiezione classica all’idea che i pensieri siano rappresentazioni interne di un’unica autorità centrale della mente, è che una rappresentazione richiederebbe un omino nella testa che la guardasse, e l’omino richiederebbe un omino ancora più piccolo che guardasse le rappresentazioni dentro di lui, e così via, all’infinito.


Non esiste una funzione mentale suprema

Non esiste un cervello del cervello, a cui tutto viene riferito e che rappresenta la sede dell‘autocoscienza.Non esiste un centro biologico del corpo. 
Se per alcune funzioni il cervello e la corteccia agiscono come centro regolatore, la stragrande maggioranza degli eventi cellulari va avanti da sé. Ciascuna cellula sa quello che deve fare e lo fa, calibrandone volta per volta la realizzazione sulla base dei segnali che giungono dalle altre cellule.
Si direbbe che ci si trovi in presenza di una sorta di armonia prestabilita che regola il comportamento delle cellule presenti nei vari distretti del nostro corpo.


L’ipotesi di un “cervello sociale”

 

Dice Gazzaniga: “Nel cervello ci sono molti sistemi paralleli. Non esiste alcun ‘generale’ in carica. Per capire tutti i comportamenti diversi, dev’esserci un sistema che interpreti e formuli teorie. Il linguaggio è strettamente connesso ad esso, ma non è la cosa stessa.
La cosa stessa è ciò a cui stiamo sforzandoci di pervenire: l’ipotesi di un “cervello sociale”.
Hooper J. Teresi D., “L’universo della mente”, Bompiani pag. 281


Osservatori per l’artiglieria

Un metafora che aiuta a chiarire l’assenza di un “Centro localizzato di direzione” del cervello, è paragonarlo all’artiglieria.
Oggi la decisionalità nello sparare con un cannone è obbligatoriamente frammentata. C’è un tenente accanto al pezzo, che ha l’autorità per dire: “Spara!”, ma sarà un sergente a tirare il grilletto.
Ma la situazione è ancora più complessa. C’è un altro ufficiale su un elicottero che comunica i dati – ad esempio: “Colpo mancato!” – dati di cui viene a conoscenza anche il comando dell’artiglieria, dove un generale tanto lontano da non sentire neppure il boato, può decidere di intensificare il fuoco.
Un altro generale – responsabile della logistica – in base a questa decisione non presa da lui, darà incarico ad un suo tenente di spostare ulteriori munizioni vicino al cannone


C’è una struttura di semi-intelligenze semi-indipendenti che agiscono di concerto

 

Non dobbiamo spiegare i processi decisionali sul modello di un ente interno che ragiona, conclude e poi ordina l’azione particolare.
Dobbiamo sforzarci di resistere alla tentazione di descrivere l’azionecome un qualcosa che sorge dagli imperativi di un unico comandante interno che svolge una parte troppo ampia del lavoro di pianificazione.

Benché siamo talvolta coscienti di eseguire elaborati ragionamenti pratici, che conducono ad una conclusione su ciò che dovremmo fare, e che sono seguiti da una decisione cosciente di fare proprio quella cosa, queste sono esperienze relativamente rare. La maggior parte delle nostre azioni intenzionali sono eseguite senza nessun preambolo del genere; e questo è un bene, poiché ce ne mancherebbe il tempo. 
L’errore comune è di suppone che questi casi relativamente rari di ragionamento pratico cosciente, costituiscano un buon modello per il resto, i casi in cui le nostre azioni intenzionali emergono da processi ai quali non abbiamo accesso. 
Dennet, “Coscienza”, Rizzoli, pag. 281


La falsa sensazione dell’esistenza di una prospettiva coerente

Afferma Dennet:
“Quando ricorro alla nozione di sé, non intendo in alcun modo suggerire che tutti i contenuti della mente siano ispezionati da un singolo osservatore e detentore, tanto meno che tale entità risieda in un unico sito cerebrale. 
Dico, nondimeno, che le nostre esperienze tendono ad avere una prospettiva coerente, come se davvero vi fosse un osservatore e detentore per la maggior parte dei contenuti, seppure non per tutti. 
Io immagino che tale prospettiva sia radicata in uno stato biologico relativamente stabile, incessantemente ripetuto. L’insieme delle rappresentazioni disposizionali che descrivono una qualsiasi delle nostre autobiografie, riguarda un gran numero di fatti categorizzati che definiscono la nostra persona: che cosa facciamo, chi e che cosa ci piace, quali tipi di oggetti usiamo, quali luoghi frequentiamo e quali azioni compiamo più spesso. 
Si può vedere questo insieme di rappresentazioni come un dossier del tipo di quelli che ben sapeva preparare la Cia o l’Fbi, salvo il fatto che non è contenuto in schedari, bensì nella corteccia cerebrale. 
Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi , pag. 325


Un comitato di homunculi relativamente ignoranti

In realtà ad ogni omuncolo – o specialista celebrale - è richiesto soltanto di reagire in pochi modi circoscritti ad alcuni dei simboli, impresa ben più semplice di quella che compie il sistema nel suo insieme. L’intelligenza del sistema emerge dalle attività dei - non tanto intelligenti - demoni meccanici dentro di esso. 
Il punto, messo per la prima volta in chiaro da Jerry Fodor nel 1968, è stato espresso da Daniel Dennett:
«Se si riesce a fare in modo che una squadra o un comitato di homunculi relativamente ignoranti, limitati, ciechi, produca il comportamento intelligente dell’intero sistema, si è fatto un progresso
Alla fine, seguitando a scomporre e a suddividere il lavoro, si arriva ad uno stato di riposta elettrica:corrente che passa o non passa. Raggiungeremo homunculi così stupidi (non dovranno far altro che rispondere sì o no, se interrogati) da poter essere, come si usa dire, «sostituibili da una macchina». 
Dallo schema si sono eliminati gli homunculi raffinati, organizzando eserciti di idioti che fanno il lavoro.»
Pinker S., “Come funziona la mente”, Mondadori, pag. 87


L’architettura della mente umana

Che posto ha l’io nell’ambito delle concezioni di Dennett? 
Dennett propone un modello basato su un “pandemonio” di operatori, in continuo a parziale contatto,freneticamente impegnati a passarsi i diversi “copioni” di ciò che sta accadendo intorno a noi: memorie, sensazioni, storie più o meno plausibili sui fenomeni che osserviamo e su cui riflettiamo, insomma una coscienza a immagine di un potente computer che continuamente passa al vaglio la realtà, esterna e interna, producendo storie congrue e incongrue che vengono mantenute in memoria e perdute, revisionate e scartate.

Nella mente ci sono canali multipli in cui vari circuiti specializzati tentano, in un pandemonio parallelo, di fare varie cose, creando man mano delle Molteplici Versioni. 
La maggior parte di queste frammentarie versioni di «narrazioni» giocano dei ruoli effimeri nella modulazione dell’attività in corso, ma qualcuna viene promossa ad ulteriori ruoli funzionali, in rapida successione, dall’attività di una macchina virtuale nel cervello. 
La serialità di questa macchina non è una caratteristica progettuale «cablata rigidamente», ma piuttosto il risultato di una successione di coalizioni di questi specialisti.
Gli specialisti fondamentali sono parte della nostra eredità animale. Non furono sviluppati per eseguire azioni specificamente umane, come leggere e scrivere, ma per evitare i predatori, schivare gli oggetti, riconoscere i volti, afferrare, scagliare, raccogliere le bacche e altri compiti essenziali. Spesso sono opportunisticamente trasferiti in nuovi ruoli, ai quali sono più o meno portati a seconda dei loro talenti originali. 
Dennet, “Coscienza”, Rizzoli, pag. 285


Un sé è un “Centro di Gravità Narrativa”

Secondo Dennet, un sé non è un punto matematico, ma un’astrazione: è un “Centro di Gravità Narrativa”. 
Come tale, svolge un ruolo singolarmente importante nell’incessante economia cognitiva di quel corpo vivente, perché, tra tutte le cose dell’ambiente di cui un corpo attivo deve farsi un modello mentale, nessuna è più cruciale del “modello di se stesso”.

Negli esseri umani queste strategie implicano soprattutto delle attività incessanti di racconto e controllo di storie, alcune fattuali e alcune fittizie. I bambini si esercitano a voce alta (si pensi a Snoopy, che dice a se stesso mentre sta seduto sul tetto della sua casetta: «Ecco l’asso della prima guerra mondiale...»). Noi adulti lo facciamo più elegantemente: prendiamo nota silenziosamente e senza sforzo delle differenze tra le nostre fantasie e le nostre narrazioni e riflessioni «serie».

Così noi costruiamo una storia definitoria su noi stessi. La traccia non è il sé, naturalmente; è unarappresentazione di un sé. Raccoglie e organizza le informazioni che miriguardano nello stesso modo in cui altre strutture nel cervello registrano le informazioni sul Texas o il gelato.
E dov’è la cosa a cui si riferiscela tua auto-rappresentazione? 
È ovunque tu sia. 
cos’èquesta cosa? 
È nulla di più, e nulla di meno, che il tuo centro di gravità narrativa.

Se tu pensi te stesso come un centro di gravità narrativa, la tua esistenza dipende dal perdurare della narrazione.
Dennet, “Coscienza”, Rizzoli, pag. 479

Ad esempio, sono in macchina tutto teso nel pensare, ma basta un colpo di clacson e il potere passa alla subroutine di “guidatore d’auto”.


La struttura che connette è una danza di parti interagenti

Rispetto a questo insieme di omuncoli, ne esiste un precedente in una riflessione di Bateson. Il filosofo americano offre la locuzione: “la struttura che connette”come sinonimo di “Io”, “me stesso”, “la mia coscienza”.
Vari specialisti cerebrali che prendono il comando a turno, e a turno si accaparrano il massimo dell’attenzione disponbile.

Dice Bateson:
“Il modo giusto per cominciare a pensare alla struttura che connette è di pensarla in primo luogo comeuna danza di parti interagenti.”
Bateson G. “MENTE E NATURA”, Adelphi, pag. 29


L’incessante riattivazione di immagini riguardanti la nostra identità

L’incessante riattivazione di immagini aggiornate riguardanti la nostra identità (una combinazione di ricordi del passato e del futuro progettato) costituisce una parte considerevole dello stato del sé.
Il secondo insieme di rappresentazioni sottese dal sé neurale è dato dalle rappresentazioni primitive del corpo di un individuo: non solo come il corpo è stato in generale, ma anche come è stato ultimamente, appena prima del processo che ha portato alla percezione dell’oggetto X. Ciò abbraccia, necessariamente, stati di fondo del corpo e stati emotivi. La rappresentazione complessiva del corpo costituisce la base per un concetto di “sé”, quasi nel modo in cui una raccolta di rappresentazioni di forma, dimensioni, colore, struttura e gusto può costituire la base del concetto di arancia. 
Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi , pag. 325


Il bisogno incessante del nostro emisfero sinistro, di spiegare azioni

 

A volte prima compiamo un’azione spontanea e non meditata, poi ci affanniamo a trovargli una giustificazione.

L’unità mentale, secondo Gazzaniga, è falsa. Il senso dell’ “Io” è un elegante lavoro di pubbliche relazioni.Il nostro sistema cognitivo non è una rete unificata con una singola intenzionalità e un singolo corso di pensiero. Una metafora più precisa è che il nostro senso della consapevolezza soggettiva sorge dal bisogno incessante del nostro emisfero dominante, l’emisfero sinistro, di spiegare azioni tratte da uno qualsiasi di una moltitudine di sistemi mentali che abitano dentro di noi.
Questa immagine della mente come non facile coalizione di sotto-menti multipleè molto in voga. Il nostro organo del pensiero viene considerato una “federazione” di sistemi neurali dotati di un grado notevole di autonomia l’uno rispetto all’altro
La misura della disunione varia da una persona all’altra. 
In ogni caso, non pare ci sia un primo motore centrale che vigili su tutto il comportamento. 
Hooper J. Teresi D., “L’universo della mente”, Bompiani pag. 284


Una mente che non ha centro

In conclusione, non è tanto importante come Dennet ha dimostrato l’inconsistenza dell’ipotesi “vocina nel cervello”, quanto il suo costringerci ad immaginare una mente che non ha centro, ma che opera al centro della mente.


Via: www.ilpalo.com

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