Saturday 20 December 2008

Doppiezza nel pensare e comunicare

Introduzione: Ognuno di noi è dotato di una doppiezza comunicativa.

Tutti i nostri atteggiamenti possono avere valenze comunicative.
Mentre io espongo un qualcosa ad un uditorio, io sto usando le parole per comunicare i concetti principali, mentre altri aspetti della mia presenza stanno comunicando cose diverse, a volte in sintonia, a volte in disaccordo col ruolo principale che io credo di sostenere. 
Noi diamo informazioni sia parlando, sia mostrandoci mentre parliamo. L’ascoltatore riceve una doppia impressione decifrando sia le parole, che il resto dei messaggi, che viene veicolato da: atteggiamenti, pause, modo di vestire, modo di gesticolare. Se l’altro decodifica in maniera doppia la mia espressione, io devo avere un atteggiamento di controllo della mia comunicazione sia verbale che non verbale.


Un controllo di tutti i canali secondari

La “doppiezza comunicativa“ si rivela essere una forma di controllo non solo del canale principale con cui si emettono informazioni indirizzate all’interlocutore, ma anche di tutti i canali secondari.

Il caso classico è che mentre il “parlato” viene emesso quasi “in automatico”, dall’altro la mente tiene sotto controllo tutto quello che viene comunicato in maniera non verbale, e tutta la situazione in cui avviene la comunicazione. Ad esempio potrebbe aver luogo un incontro di tre persone in cui due soltanto, per motivi del tutto leciti, sosterranno una conversazione. I due stanno parlando tra di loro, ma ciò non li esime dal tener presente che a questo dialogo è presente una terza persona, che magari per puri motivi di cortesia può essere invitata ad intervenire.

In realtà mentre l’interlocutore vi ascolta, anche voi starete osservando questa persona, che magari incontrate per la prima volta. Voi all’interno di un dialogo con lui lascerete comunque spazio alle sue parole. Infatti a voi serve capire sempre di più non solo che cosa lui vi vuole dire di concreto con “le parole”, ma anche se l’interlocutore si lascia sfuggire informazioni dal punto di vista non verbale.

Osservare la controparte nell’interazione, vi ricorda che è l’interlocutore il “centro di gravità” della comunicazione.
È sempre “ciò che l’altro può capire” l’aspetto fondamentale, e mai “ciò che effettivamente abbiamo detto noi”. 
La responsabilità dell’efficacia della comunicazione è tutta in chi ha emesso la comunicazione. Per principio l’interlocutore va sempre assolto, è sempre “innocente”, se non è riuscito a capire quello che avevate intenzione di comunicare.
Ecco un motivo in più per prestare un’estrema attenzione a quello che si comunica, in ogni forma o linguaggio. 
Si tratta di andare verso un CONTROLLO TOTALE  della comunicazione.


Una doppiezza di atteggiamento mentale nei confronti del mondo

 

La progettazione di una comunicazione può avvenire anche nel momento in cui si comunica. Insieme si parla e ci si osserva da fuori, si espongono concetti e si pensa alla mossa successiva. Certo non sempre, ma alcune volte, specie in caso di comunicazioni importanti, questa doppiezza è ben presente: si tratta di sistematicizzarla.

È possibile infatti da un lato “dire parole”, dall’altro ascoltarsi mentre “si dicono parole”. 
Spesso è opportuno porsi domande del tipo: sto comunicando bene? Sto dimenticando qualche argomento che invece sarebbe necessario esporre? L’interlocutore ha mostrato interessa alla frase che ho appena detto?

Emettendo una comunicazione volutamente non solo verbale, ad esempio mostrando delle immagini mentre si parla, è possibile deviare l’attenzione dell’interlocutore verso il nuovo oggetto visivo e non più verso la nostra “comunicazione non verbale”. 
Quindi: o si ha qualcosa da mostrare, oppure mostreremo noi stessi mentre comunichiamo. Ecco quindi l’importanza di tenere sotto controllo anche gli aspetti non verbali della propria espressione.

Non solo è possibile avere una doppiezza comunicativa, ma spesso è possibile avere anche unadoppiezza di atteggiamento mentale nei confronti del mondo esterno.


Mostra interesse alle mie parole?

La più classica delle informazioni da ricevere è: mostra interesse alle mie parole? Mi segue con gli occhi? Mi fornisce un senso di incoraggiamento a continuare con allocuzioni del tipo: “sì… certo… dica…”?


La comunicazione è paragonabile ad una recita

Una metafora interessante per analizzare la comunicazione tra le persone, è paragonarla ad una rappresentazione, ad una recita.
Noi abbiamo una maschera, individuiamo un nostro pubblico, calibriamo i nostri interventi a seconda del tipo di pubblico che abbiamo di fronte, e non teniamo lo stesso atteggiamento a casa e in ufficio, a un funerale o in una birreria.
Le interazioni che noi compiamo con gli altri hanno degli aspetti comprensibili all’interno della metafora del teatro e della recitazione. Questa modo di analizzare la comunicazione come se fosse una recita, trae spunto dall’importante lavoro del 1959 di Erving Goffman “La vita quotidiana come rappresentazione”, da cui abbiamo tratto ampie citazioni.


La doppiezza a livello temporale

Prima di un colloquio importante è del tutto lecito prepararsi mentalmente il discorso che si sta per fare. Questo è un caso emblematico di doppiezza comunicativa. Infatti è bene, prima di un incontro importante, tentare anche di visualizzare l’ufficio in cui avverrà il colloquio. Di solito si prova a prevedere l’incontro e a progettarlo nei suoi vari particolari: il tipo di vestito che si indosserà per l’occasione, cosa si tirerà fuori dalla cartella per mostrarlo all’interlocutore, ecc..

La progettazione di una comunicazione può avvenire anche nel momento in cui si comunica. Insieme si parla e ci si osserva da fuori, si espongono concetti e si pensa alla mossa successiva. Alcune volte, specie in caso di comunicazioni importanti, questa doppiezza è ben presente: si tratta di sistematicizzarla.
È possibile infatti da un lato “dire parole” dall’altro ascoltarsi mentre “si dicono parole”.


La doppiezza comunicativa è sempre immorale?

Non solo è possibile avere una doppiezza comunicativa, ma spesso è possibile avere anche una doppiezza di atteggiamento mentale nei confronti del mondo esterno.
È interessante a questo proposito una citazione, tratta da un libro di un biografo di biografi di Hitler:


Rosenbaum: “Il mistero Hitler”

Il tutto parte da una mia passione per la Storia, a cui ho dedicato una serie di pagine web e una mailing list di cui sono il moderatore, e soprattutto dalle riflessioni suscitate da un volume di Ron Rosenbaum.
Ron Rosenbaum “Il mistero Hitler”, Mondadori.
Non ho problemi ad ammettere che, benchè studi e legga notizie su Hitler da anni, non sono ancora riuscito a farmi un’idea univoca su cosa spinse il dittatore tedesco a diventare quello che fu. 
Ho capito che il tutto si gioca tra il 1918, quando, ancora convinto che la Germania poteva vincere, si ritrovò in ospedale tedesco e lì seppe che il suo Stato aveva chiesto la pace, e il 1919, quando diventa un informatore dello Stato Maggiore tedesco, incaricato di raccogliere notizie sui gruppi antibolscevichi di Monaco.

Hitler era un antisemita perchè era un modo facile per "essere accettato" e ascoltato nelle birrerie bavaresi?
Oppure credeva nelle fandonie razziali che costituivano la base dei suoi primi comizi?
Era un attore o un fanatico?


Interpretazioni divergenti sul carattere di Hitler

Per farvi un esempio di interpretazioni divergenti, secondo il filosofo ebraico Fackenheim, Hitler non credeva neppure nel suo antisemitismo, e si “atteggiava di fronte allo specchio”.
Invece secondo lo storico Bullock, il dittatore tedesco era un grande attore che però credeva nella parte che recitava.
Insomma non sono il solo a non avere una visione univoca ed esente da dubbi, su Hitler.

In questo senso il volume di Ron Rosenbaum, “Il mistero Hitler”, è stato per me rivelatore. È un libro basato su interviste ai più celebri biografi di Hitler. Ne emerge un quadro desolante e insieme curioso: gli storici non sono affatto concordi sulla risposta al quesito: “Che cosa fece di Hitler «Hitler»?”.
Eppure di Hitler sappiamo molto: è stato un personaggio pubblico, è morto meno di un secolo fa, di lui sono stati catturati tutti gli archivi segreti, con le registrazioni dei suoi colloqui allo Stato Maggiore tedesco, e tanti documenti di prim’ordine. Su lui abbiamo un patrimonio incredibilmente vasto e incomparabilmente maggiore di documenti rispetto a quel che abbiamo su Stalin; eppure su Hitler non esiste ancora un giudizio unanime.
Con la modestia degli storici seri, bisogna accettare questo stato di cose e... continuare a cercare e incrociare informazioni.


Ipotesi “A”: Hitler non credeva nel suo antisemitismo

L’Hitler pubblico, secondo il filosofo ebraico Fackenheim, era una creazione a cui collaboravano insieme l’attore e l’uditorio. Hitler non credeva veramente che la colpa di tutto fosse degli ebrei. Racconta Rosenbaum:

“Posi al filosofo Fackenheim la domanda fondamentale: «Lei vuoi dire che Hitler stesso non credeva neppure lui nel suo antisemitismo?».
«Non credo che conoscesse la differenza fra recitare e credere.» Fackenheim proseguì ricordando un particolare riferito in un memoriale scritto da uno degli intimi di Hitler, secondo cui «prima dei comizi, Hitler si atteggiava di fronte allo specchio». Citò le cronache di una delle prime adunate, in cui «all’inizio Hitler ha un’espressione interrogativa, poi riesce a suscitare una genuina approvazione nel pubblico, e allora si rilassa e sorride. Era un uomo che veniva considerato un signor nessuno quando nella vita privata si trovava in compagnia di persone qualsiasi, soprattutto donne. Diventava un dio davanti alle masse».
L’Hitler pubblico, ribadiva Fackenheim, era una creazione collettiva a cui collaboravano insieme l’attore e l’uditorio. 
«Ovviamente» aggiunse Fackenheim con una punta di raggelante ironia «è sconvolgente pensare che sei milioni di ebrei siano stati assassinati a causa di un attore.»
Ron Rosenbaum “Il mistero Hitler”, p. 397

Insomma Hitler diceva quello che la gente voleva sentire. Instaurava una sequenza perversa: l’oratore lusinga il suo pubblico urlando dal podio pensieri che l’individuo che lo ascolta ha in testa. 
Ecco che la sequenza si innesta: l’uditorio applaude, l’oratore di “carica”, il discorso gli viene più sciolto e convincente. Il comiziante nel finale dell’orazione esalta i valori dei “buoni” e la viltà dei “cattivi”. Tutti i buoni applaudono ancora più forte, iniziano a sentirsi “molti”, non più individui solitari, ma esercito che ha trovato un capo.

Vedremo più avanti alcuni dei trucchi retorici di Hitler. Per ora citiamo solo una testimonianza di un suo ascoltatore:


Provare un discorso davanti allo specchio è un reato?

Sembra che l’oggetto del contendere sia: “Hitler era sincero?”.
Un oratore sincero non ha il diritto di provare davanti allo specchio?
E perché mai? Chi non usa lo specchio può essere “spontaneo”, ma la spontaneità in politica dura poco. Il contrario di “spontaneo” è “calcolatore”, e Hitler è stato un grande calcolatore. Lo dimostra il suo destreggiarsi tra le correnti interne al suo partito, poi fra i partiti tedeschi, e alla fine fra le grandi potenze europee.

La mia personale interpretazione è che Hitler non era spontaneo, ma era dotato di un forte autocontrollo nella doppiezza comunicativa. Quando parlava aveva sempre un obiettivo ben definito: convincere i presenti che lui e loro avevano ragione, e che lui era il capo che il pubblico aspettava.


Ipotesi “B”: Hitler è un caso di doppiezza dinamica e molto comune

«Parlai a Bullock», continua Rosenbaum, «della teoria di Emil Fackenheim, secondo la quale Hitler era un commediante. Per Fackenheim l’odio di Hitler per gli ebrei era, come tutte le convinzioni da lui professate, un cinico atto di opportunismo.
Ma la risposta di Bullock mi colse di sorpresa.
Per Bullock il processo mentale di Hitler è complesso, dinamico. Comincia con quello che sembra un cinico calcolo opportunistico: ciò che più importa non è credere, ma esser visti credere; cioè, la finzione del credere è più importante della sincerità. Ma, se c’è un calcolo dietro il comportamento iniziale (quel calcolo che per Fackenheim è essenziale alfine di tener ferma l’immagine di Hitler come consapevolmente malvagio), ciò che segue è un «fenomeno degno di nota» nel corso del quale l’attore-mistificatore si fa trasportare dal suo modo di agire, ne è ossessionato, sopraffatto, fino a credere alla sua stessa mistificazione.

«Penso esattamente la stessa cosa di Stalin.», continua Rosenbaum. «Stalin era molto diverso da Hitler, sotto vari aspetti. Poiché non era un oratore, non aveva assolutamente alcun carisma; vi era solo il culto di Stalin, che egli stesso alimentava e che gli dava la sicurezza di essere apprezzato. Un apprezzamento che, all’inizio, era artificiale, non spontaneo. Alla fine diventò naturale per moltissima gente. E per lui stesso: egli era consapevole di quel che stava facendo - creare un “culto del proprio genio” - ma, nei momento stesso in cui era consapevole di ciò che stava facendo, sapeva che la cosa era vera: che egli era un genio.»


Hitler era un commediante?

 

Per Bullock Hitler era un grande attore che credeva nella parte che recitava:
«Questa è l’unica cosa che si può dire di lui. Era un grande attore, ma... aspetti, c’è una magnifica citazione di Nietzsche che ho sottomano.»
Bullock prese un volume di Nietzsche e lesse ad alta voce un passo (da “Umano, troppo umano”) che sembrava racchiudere la sua nuova, riveduta visione dell’universo mentale di Hitler:
“In tutti i grandi ingannatori è degno di nota un fenomeno al quale essi devono il loro potere. All’atto dell’inganno vero e proprio, fra tutti i preparativi, come l’orrendo nella voce, nell’espressione e nei gesti, in mezzo all’efficace messa in scena, sopravviene in loro la fede in se stessi: è questo che poi parla così miracolosamente e convincentemente a coloro che stanno intorno. ... Giacché gli uomini credono alla verità di tutto ciò che viene manifestamente creduto con forza.”

Rosenbaum non era ancora convinto che questa nuova, più complessa interpretazione della mentalità di Hitler non fosse contraddittoria.
«Intende dire» chiesi a Bullock, «che c’è un calcolo, il quale poi genera un’ossessione, che alla fine diventa autentica, e non semplicemente recitata?»
«Non ci vedo alcuna difficoltà» disse Bullock. «Gli uomini sono perfettamente capaci, nella vita pubblica, di avere due convinzioni. fra loro incompatibili. E, per quasi tutto il giorno, le ho anch’io.»
«Ma si può essere sinceri e insinceri nello stesso tempo?»
Credetti, a quel punto, di averlo messo in difficoltà, ma egli ebbe. ancora la meglio su di me, servendosi del racconto di un funerale.
Mi raccontò di un funerale che aveva avuto luogo quella mattina stessa. Un suo collega era annegato. Bullock aveva preso la parola durante la funzione funebre. «Ho fatto anch’io quell’esperienza stamattina, mentre parlavo» mi disse. «Le parole mi venivano dal cuore, perché ero veramente molto addolorato. La moglie del mio collega, che aveva avuto quel colpo terribile, era di fronte a me e mi guardava. E, mentre parlavo, dicevo a me stesso: “Mi stanno ascoltando? Sto avendo successo?”. 
Sarò franco con lei. Non credo di essere un uomo insincero, ma sono perfettamente consapevole di quello che faccio, e volevo avere successo. 
C’è qualcosa dell’attore in molte persone. È come se in me ci fosse un diavoletto che salta su e mi dice: “Come ti sembra che vadano le cose? Te la cavi piuttosto bene, no?”»
(Ron Rosenbaum, “Il mistero Hitler”)


Siamo tutti potenziali attori

 

Molti individui credono sinceramente che la “definizione della situazione che essi abitualmente proiettano” sia la vera realtà. 
Quasi tutti possono imparare rapidamente quel tanto di copione che basta a dare a un pubblico ben disposto un senso di realtà a quanto gli viene allestito davanti. E questo sembra avvenire perché ilcomune rapporto sociale è di per sé organizzato come una scena, con scambio di azioni teatralmente gonfiate, contro-azioni e battute finali. I copioni possono diventare vivi anche in mano ad attori inesperti, poiché la vita stessa è una recita. Naturalmente non tutto il mondo è un palcoscenico, ma non è facile specificare esattamente i motivi per cui non lo è.
Goffman Erving, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, pag. 84


Doppiezza: gli uomini hanno bisogno di un pubblico

Gli uomini hanno bisogno di contatti sociali e di compagnia sotto un duplice profilo; da un lato essinecessitano di un pubblico davanti al quale recitare le proprie vanterie, dall’altro di compagni diéquipe con i quali entrare in cospirazioni segrete e rilassarsi nel retroscena
C’è sempre chi riveste il ruolo del compagno fidato”; il detentore di tale ruolo sarà infatti sempre a disposizione, sia per ricevere, come testimone, l’impressione che il “padrone” vuole dare, sia per aiutarlo a trasmetterla. 
Goffman Erving, La vita quotidiana come rappresentazione,Il Mulino, pag. 232


Creiamo e rappresentiamo il personaggio che ci siamo scelti

 

Come dice Santayana:
“Sia che assumiamo un’espressione gioiosa o una triste, nel farla nostra e nel sottolinearla diamo la definizione del nostro umore dominante. Quindi, fintanto che restiamo sotto l’influenza di questa nostra consapevolezza, non soltanto viviamo ma recitiamo: creiamo e rappresentiamo il personaggio che ci siamo scelti, difendiamo ed idealizziamo le nostre passioni, ci incoraggiamo con eloquenza ad esser ciò che siamo, affezionati, sprezzanti, indifferenti o severi; recitiamo soliloqui (davanti ad un pubblico immaginario) e ci avvolgiamo con grazia nel manto del nostro inalienabile personaggio.”

Chiunque sia sicuro delle proprie idee, fiero del proprio lavoro o sollecito del proprio dovere, assume una maschera tragica: la reputa essere il suo io e le affida quasi tutta la sua vanità. 
Le nostre abitudini animali sono trasformate dalla coscienza in lealtà e doveri, e diventiamo “persone” o maschere.


I partecipanti definiscono la situazione

Della Doppiezza comunicativa fa parte anche la nostra compiacenza nell’ascoltare i “guai” di chi chiacchiera con noi.

Dice Goffman Erving in “La vita quotidiana come rappresentazione” a proposito delle conversazioni tra conoscenti:
“in genere esiste una specie di divisione del lavoro in fatto di definizioni durante una conversazione.Ad ogni partecipante è permesso di istruire delle regole su argomenti che sono vitali per lui, ma non di immediata importanza per gli altri, e cioè le razionalizzazioni e giustificazioni con le quali risponde della sua passata attività. In cambio di questo privilegio, egli tace, oppure non s’impegna nei confronti di fatti importanti per gli altri, ma non d’immediato rilievo per quanto lo riguarda: si raggiunge così nell’interazione una specie di modus vivendi.
Goffman Erving, La vita quotidiana come rappresentazione,Il Mulino, pag. 22


Gradi diversi di consapevolezza del proprio ruolo

Noi ci raccontiamo a “noi stessi” e agli altri.
A volte l’individuo agirà in modo del tutto calcolato, esprimendosi in una determinata maniera solo per dare agli altri il tipo d’impressione che ha probabilità di sollecitare in loro la particolare reazione che egli ha interesse di ottenere. Altre volte egli agirà per calcolo, pur non essendone cherelativamente consapevole, altre volte ancora si esprimerà intenzionalmente e coscientemente in un determinato modo soprattutto perché la tradizione del suo gruppo, o il suo status sociale lo richiedono, e non per ottenere una particolare reazione (a parte una vaga accettazione o approvazione). Infine, altre volte ancora, le tradizioni implicite nel ruolo dell’individuo lo porteranno adare un’impressione ben precisa, malgrado egli non cerchi, consciamente o inconsciamente, di creare tale impressione.

Gli osservatori, sapendo che l’individuo tende a presentarsi sotto una luce favorevole, possono dividere la scena a cui assistono in due parti: 
l’una, che l’individuo può facilmente controllare a piacere e che riguarda in massima parte le sue affermazioni verbali
l’altra che sembra sfuggire al controllo o non rivestire alcun interesse per l’individuo e che consiste in massima parte nelle espressioni che “lascia trasparire”.

Gli altri possono allora servirsi di quelli che vengono considerati gli aspetti non controllabili del suo comportamento espressivo come mezzo per verificare la verità di quanto è trasmesso dagli aspetti controllabili. Con ciò viene dimostrata la fondamentale asimmetria del processo di comunicazione, poiché, presumibilmente, l’individuo è consapevole di un solo livello della sua comunicazione, mentre gli osservatori sono consapevoli di questo livello e di un altro.
Goffman Erving, La vita quotidiana come rappresentazione,Il Mulino, pag. 17


L’espressione assunta intenzionalmente e quella “lasciata trasparire”

Quando un individuo viene a trovarsi alla presenza di altre persone, queste, in genere, cercano di avere informazioni sui suo conto o di servirsi di quanto già sanno di lui. È probabile che il loro interesse verta sul suo status socio-economico, sulla concezione che egli ha di sé, sul suo atteggiamento nei loro confronti, sulle sue capacità, sulla sua serietà, ecc. 
Le notizie riguardanti l’individuo aiutano a definire una situazione, permettendo agli altri di sapere in anticipo che cosa egli si aspetti da loro e che cosa essi, a loro volta, possono aspettarsi da lui: tali informazioni indicheranno come meglio agire per ottenere una sua determinata reazione.
I presenti possono ricavare informazioni da diverse fonti e molti indicatori (o “strumenti segnici”) sono disponibili a questo scopo. 
L’espressività dell’individuo (e perciò la sua capacità fare impressione su terzi) sembra basarsi su due tipi di attività semantica radicalmente diversi: l’espressione assunta intenzionalmente e quella “lasciata trasparire”. 
Goffman Erving, La vita quotidiana come rappresentazioneIl Mulino, pag.  12


L’impressione creata dal comportamento  incontrollato è considerata fonte di informazioni attendibili

Poiché è probabile che gli altri valutino gli aspetti più controllabili del comportamento sulla base di quelli meno controllabili, non è da escludere che l’individuo a volte tenti di sfruttare egli stesso questa possibilità manipolando l’impressione creata per mezzo del comportamento apparentemente incontrollato che viene generalmente considerato fonte di informazioni attendibili.
Goffman Erving, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, pag. 18

Questo tipo di controllo sulla recitazione dell’attore restaura la simmetria del processo di comunicazione e prepara lo scenario per una specie di gioco delle informazioni: un ciclo potenzialmente infinito di dissimulazioni, scoperte, false rivelazioni e riscoperte. Si deve aggiungere che, poiché in genere gli osservatori tendono a fidarsi dell’aspetto presumibilmente incontrollato della condotta dell’individuo, egli può avvantaggiarsi di molto esercitando un controllo su di esso. Gli osservatori possono però accorgersi che l’individuo sta contraffacendo gli aspetti presumibilmente spontanei del suo comportamento, e cercheranno allora nella contraffazione stessa quelle sfumature della condotta che l’individuo non è riuscito a controllare
L’arte di smascherare un individuo che finge di non fingere, sembra più sviluppata della nostra capacità di fingere. 
Goffman Erving, La vita quotidiana come rappresentazione,Il Mulino, pag. 19


La "doppiezza comunicativa" è una forma di controllo 
La "doppiezza comunicativa" si rivela essere una forma di controllo non solo del canale principale con cui si emettono informazioni indirizzate all’interlocutore, ma anche di tutti i canali secondari. 
Il caso classico è che mentre il "parlato" viene emesso quasi "in automatico", dall’altro la mente tiene sotto controllo tutto quello che viene comunicato in maniera non verbale, e tutta la situazione in cui avviene la comunicazione. Ad esempio potrebbe aver luogo un incontro di tre persone in cui due soltanto, per motivi del tutto leciti, sosterranno una conversazione. I due stanno parlando tra di loro, ma ciò non li esime dal tener presente che a questo dialogo è presente una terza persona, che magari per puri motivi di cortesia può essere invitata ad intervenire.


Einstein. Una risposta ambigua ma non menzognera

Verso la fine del 1936 la Società scientifica di Berna inviò a Einstein un diploma che gli era stato appena conferito. La sua risposta del 4 gennaio da Princeton:
«Non potete immaginare quanto mi ha fatto e mi fa piacere che la Società scientifica di Berna si sia ricordata di me in modo cosí cortese. Mi è giunto come un messaggio dai tempi ormai lontani della mia giovinezza. Le nostre riunioni serali, tanto stimolanti e vivaci, mi tornano ancora una volta alla mente e soprattutto gli straordinari commenti che il Professor Sahli [Salis?], l’internista, faceva sulle conferenze. Ho fatto subito incorniciare il documento ed è l’unico di tanti riconoscimenti che è appeso nel mio studio. È un ricordo dei tempi di Berna e degli amici che avevo allora.
Vi chiedo di esprimere ai membri della Società i miei cordiali ringraziamenti e la mia riconoscenza per la cortesia che mi hanno dimostrato.»
Qui bisogna aggiungere qualche precisazione. Quando arrivò il documento Einstein disse: « Questo lo farò incorniciare e lo appenderò in studio, perché quei signori deridevano sempre me e le mie teorie». Ricevette molti altri premi ma non li incorniciò mai, né li appese alle pareti dello studio. Li nascondeva invece in un angolino che chiamava «l’angolo del vanto» (« Protzenecke »).
Dukas H. Hoffmann B., “Albert Einstein il lato umano“, Einaudi, pag. 7


Via: www.ilpalo.com

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