Saturday 20 December 2008

Il parlare: la comunicazione aziendale nell’impresa

Chi conosce molte parole ottiene vantaggi nelle azioni

 

La parola è il nome, l’etichetta, la bandiera del concetto. Apprendere un concetto implica elaborare ipotesi e verificarle.
Operando e catalogando con titoli e parole, si evita di perdersi nell’oceano della diversità.
L’educazione del bambino avviene anche insegnandogli parole. Chi conosce molti termini ottiene vantaggi nelle azioni.
La facilità con cui è possibile inventare parole, permette la costruzione di sottoinsiemi e di soprainsiemi, che dividono e ricompongono l’universo in categorie
I concetti aiutano nell’affrontare la terribile unicità di tutte le esperienze che viviamo. L’apprendimento di un concetto è un processo attivo, spesso sistematico, con cui si costruisce una struttura mentale degli attributi e delle loro relazioni.

Un laureato in media conosce tra le 30.000 e le 50.000 parole. Un buon dizionario ne riporta 260.000, ma è facile consultare un vocabolario e scoprire che non riporta una parola del proprio gergo lavorativo o culturale o un termine dialettale intraducibile nelle sue sfumature, il che fa alzare il numero delle parole che in qualche maniera possiamo usare. Sono equivalenti a parole anche i nomi di luoghi o di persone, conosciuti direttamente o nella scuola, o da giornali o libri. L’archivio mentale dei termini usabili è quindi la somma di un vocabolario, di un’enciclopedia, di un atlante, di una biblioteca, delle annate di un quotidiano, di un diario personale e della propria agenda telefonica.

Quindi il nostro vocabolario è molto più grande, ci sono termini geografici: Tevere, Nepal; storici: Garibaldi, Pietro Micca; umani: tutti i cognomi delle persone che conosciamo, tale che il totale delle parole che possiamo usare è amplissimo.


Denotare e connotare: due modi di usare le parole
“Quel cane abbaia” e “Quel tenore è un cane” sono due utilizzi diversi dello stesso termine. Il primo è “denotativo”, il secondo “connotativi”.
La parola rappresenta il concetto nei suoi aspetti denotativi (descrizioni per immagini, evocazione e confronto con prototipi), ma è disponibile velocemente a suggerire aspetti connotativi (rami laterali del significato, metafore ed estensioni simboliche di attributi).
La parola “tavolo” ci fa scorrere nella mente varie immagini di tavoli più o meno validi come prototipi, come esempi assoluti del concetto. Quando dal campo delle definizioni ci spostiamo a percorre quello delle connotazioni possibili, possiamo avere frasi tipo “il mare è una tavola”. Connotare un termine, permette di creare giochi di parole o battute, di descrivere in modo originale una situazione, fornendo lo spunto a nuovi accostamenti.


Le parole sono comode da accoppiare
Le parole si prestano a facili, veloci e fertili accostamenti. Il passaggio da un concetto all’altro è istantaneo, impetuoso. Si salta tra più argomenti senza fatica. Si richiamano alla mente concetti, li si rivedono passandoli in rassegna, finchè fulmineo non arriva il riconoscimento di un punto di contatto con un’altra parola-argomento lontanissima da quelle tenute sotto esame. Può essere un attributo o una struttura comune a due concetti, o una loro caratteristica curiosamente differente, e allora quella diviene l’idea che si seguirà nei prossimi istanti.

Non è possibile prendere pezzi di quadri e metterli insieme per produrre nuove combinazioni con la facilità con cui è possibile combinare parole. Le immagini mentali prodotte dalle parole si fondono in sistemi unificati, armoniosi, fecondi, ma quel che più conta: “impensati”. Le forme del linguaggio verbale sono attrezzate per l’evocazione di massa delle immagini mentali, la cui individualità è richiamata e presa in esame mediante la combinazione di etichette standardizzate.


Interruzioni del flusso linguistico:  gli umanisti ne fanno di più

 

Molti dei nostri discorsi sono punteggiati da pause. Schacter et al. hanno contato il numero di pause ed esitazioninelle lezioni di 47 professori della Columbia University. 
I dati mostrano che i docenti di discipline umanistiche e scienze umane interrompono i loro discorsi più dei professori di discipline scientifiche. 
Questa differenza va interpretata tenendo conto delle diversità quantitative tra il vocabolario delle scienze e delle lettere. L’oggetto delle discipline scientifiche è meglio definito di quello delle discipline umanistiche. Vi sono meno sinonimi per i termini scientifici che non per i concetti delle discipline umanistiche e delle scienze sociali. «Non vi sono, ad esempio, sinonimi di molecola, o atomo, o ione. Per contro si considerino le alternative per termini come amore, bellezza, pregiudizio o stile». 
Questa differenza di vocabolario significa che i professori di materie umanistiche devono scegliere tra molti più mondi possibili che non i professori di materie scientifiche. Le pause di esitazione rappresentano punti in cui iprofessori scelgono tra le varie possibilità offerte dalle rispettive discipline, fra le diverse parole e sinonimi del loro vocabolario interiore. Dal momento che i professori di materie scientifiche hanno meno scelte da compiere, essi fanno meno pause di esitazione.
John G. Benjafield, “Psicologia dei processi cognitivi”, p. 251


La parola è una matrice multidimensionale

Non dobbiamo supporre che una parola sia un’immagine di un determinato oggetto, proprietà o azione; nè che sia semplicemente un’associazione di un’immagine e di una combinazione particolare di suoni. Invece dobbiamo considerare la parola come una complessa matrice multidimensionale con diverse connessioni: acustiche, morfologiche, lessicali, e soprattutto semantiche, cioè di significato.
Quando una parola usata in un pensiero entra in contatto con un’altra, noi possiamo sottolineare un attributo finora non pensato, che diventa esso stesso fonte di esperimenti, verifiche e nuove rassegne mentali.


La rappresentazione sottostante


La frase è la normale unità di conversazione. Parole e suoni sono parti integrali dl una frase, ma gran parte delle informazioni che contiene è veicolata dalle relazioni tra queste componenti. “La vecchia porta” non significa la stessa cosa di “porta la vecchia”, anche se le parole sono le stesse. La ricchezza di una frase è molto maggiore della somma delle sue componenti/parole, perchè è nelle relazioni TRA parole che è celata la gran parte del significato.

Le frasi contengono informazioni a due livelli:
struttura di superfice 
e
rappresentazione sottostante.

La prima è l’organizzazione delle parole nella frase, nella sua enunciazione. La seconda è il modo in cui isignificati delle parole sono posti in relazione per rappresentare il significato complessivo della frase. 
Si consideri la frase ambigua “il massacro dei cacciatori fu spaventoso”. Se la struttura di superficie è unica, vi sono due modi diversi di mettere in relazione i significati delle parole e due rappresentazioni sottostanti.


Regole di Grice

Per facilitare il processo di comunicazione gli individui coinvolti in una conversazione tendono ad obbedire al principio di cooperazione. Secondo Grice, da questo principio seguono quattro regole, o massime conversazionali [Paprotte e Sinha 1987, 205].
In primo luogo, gli interlocutori cercano di non dire più di quanto sia necessario (massima della quantità). 
In secondo luogo, gli interlocutori cercano di essere veritieri (massima della qualità).
In terzo luogo, gli interlocutori cercano di essere pertinenti (massima della relazione). 
Infine, gli interlocutori cercano di essere chiari e di evitare le ambiguità (massima del modo).


Comprensione del linguaggio guidata dall’alto e dal basso

Ascoltando qualcuno che ci parla, il processo della comprensione è guidato da una base concettuale, e cioè da ciò che ci aspettiamo di dover udire. Il processo opposto è guidato da quel che udiamo, e cioè dalla struttura di superficie della frase. Noi ascoltiamo sia agendo dall’”alto” - cioè partendo da ciò che ci aspettiamo di sentir dire - che dal “basso”, e cioè dalle percezioni sonore, da ciò che effettivamente sentiamo. Le attese del percettore influenzano il modo di comprendere i termini che ascolta.

Utilizzati da soli i due metodi sono entrambi insufficienti, ma usati insieme concorrono a rendere più efficiente la comprensione.


Se era una cosa che si poteva spiegare in due minuti non le davano il Nobel

Tra i limiti di un linguaggio, il principale è costituito dall’ignoranza dell’ascoltatore che si desidera informare. Speriamo che le nostre parole abbiano per lui l’identico significato che per noi. Non abbiamo tempo per definire ogni termine che usiamo.

Racconta Feynman in “Il piacere di scoprire”: 
“Ho fatto una corsa in taxi e il tassista ha cominciato a parlare, chiacchierando gli ho raccontato la seccatura di questi tizi che mi fanno domande alle quali non so mai come rispondere. Il tassista  mi disse: 
“Ho ascoltato una sua intervista. L’ho vista in televisione. Uno le ha chiesto: “Ci può spiegare in due minuti come ha fatto a vincere il Nobel?”. Lei ci ha provato ed è stato un pazzo. 
Lo sa che cosa avrei risposto io al suo posto? 
Gli avrei detto: “Cosa crede, se era una cosa che si poteva spiegare in due minuti, mica mi davano il Nobel!”».

Da allora ho sempre dato questa risposta. 
Quando qualcuno mi fa la domanda, io rispondo sempre: “Se fosse così facile da spiegare, mica avrei meritato il Nobel”. 
Non sarà proprio corretto, ma è una risposta abbastanza divertente.
Feynman R. “Il piacere di scoprire”, Adelphi, pag. 244


Le parole creano i giudizi nel momento in cui li formulano

Come disse nel 1915 J. Hughlings Jackson: 
“Noi parliamo, non solo per dire agli altri cosa pensiamo, ma anche per dire a noi stessi cosa pensiamo.”

Noi scopriamo cosa pensiamo, riflettendo su quello che diciamo, o almeno su ciò che affermiamo e non correggiamo. 
La vita di Bertrand Russell prima del suo fidanzamento ci offre un esempio:
“Si fece molto tardi prima che i due ospiti se ne andassero e Russell rimase solo con Lady Ottoline. Rimasero seduti a parlare davanti al fuoco fino alle quattro del mattino. Russell, ripensando all’evento alcuni giorni più tardi, scrisse: 
«Non sapevo di amarti fino a che non ho udito me stesso dirtelo. 
Per un istante ho pensato: “Buon Dio, cosa ho detto?” e poi ho saputo che era la verità»”.
Dennet, “Coscienza”, Rizzoli, pag. 281


Non esiste affatto chiarezza su che cosa sia un “significato”

La trasmissione del significato trova come canale principale la parola ed il parlare.
La parola, e spesso la frase, sono gli strumenti del nostro comunicare. Con questi “arnesi” fonici o scritti, noi comunichiamo dei significati.
Non esiste affatto chiarezza su che cosa sia un “significato”, benchè sia un concetto principe del nostro essere animali razionali. L’universo dei significati viene studiato da una scienza detta “semantica”, mentre la “semeiotica” è la scienza che studia i segni.
Il rapporto fra segno è significato è lo stesso di quello esistente tra le due facciate di un foglio bianco, una non potrebbe esistere senza l’altra. Un taglio fatto su una facciata si ripercuoterà su quella sottostante, ma insieme i due lati sono separati e non coincidono.
La semantica non ci aiuta a definire cosa succede quando noi emettiamo una parola – un segno – per suscitare una reazione nell’interlocutore. La semantica non riesce a chiarire fino in fondo cosa accade quando noi mostriamo significati, e che rapporto ci sia tra questi e i segni che li rappresentano.

La semantica ha comunque compreso che una frase può avere una o più interpretazioni sottostanti, a volte contrastanti. Che la frase può essere ambigua, allusiva, contraddittoria, eppure a suo modo è proprio quella frase che viene scelta perché efficace in quel particolare momento.

In semantica si dice che le parole non possono essere considerate di per se stesse, ma vanno viste all’interno di un sistema, di un linguaggio complesso nella sua interezza. Il linguaggio è da un lato una serie diforme fonetiche che cambiano nel tempo, e dall’altro è un insieme di significati che cambiano nel tempo.
Questa impossibilità di fissare dei momenti discontinui nella perenne evoluzione del linguaggio e dei significati, è una delle problematiche in cui la semantica non riesce a trovare una definizione univoca.


L’informazione può essere ceduta e insieme conservata

La vita in gruppo potrebbe avere aperto la strada all’evoluzione di un’intelligenza di tipo umano in due modi. Con un gruppo già costituito, il valore di disporre di migliori informazioni si moltiplica, perché l’informazione è l’unico bene che possa venire ceduto e conservato nello stesso tempo. Quindi un animale più in gamba, a vivere in gruppo, gode di un doppio vantaggio: quello del sapere e quello di scambiare il sapere con qualcos’altro.
L’altro modo nel quale un gruppo può essere una fucina di intelligenza sta nel fatto che vivere in gruppo pone nuove sfide cognitive.
Pinker S., “Come funziona la mente”, Mondadori, pag. 207


Quando una nuova parola è ammessa nel vocabolario

I compilatori dell’Oxford English Dictionary utilizzano un criterio pratico per decidere se una nuova parola sarà o meno inclusa e canonizzata. L’aspirante "parola" deve essere usata comunemente, senza avere bisogno di essere definita e senza che occorra aggiungere un riferimento alla sua invenzione.
Dawkins R., “Il cappellaio del diavolo”, Raffaello Cortina Editore, pag. 161


Denotazione e connotazione

Sulla base di un codice dato, un significante DENOTA dunque un significato. Il rapporto di denotazione è un rapporto diretto e univoco, rigidamente fissato dal codice. Il termine "elettricità denota una "proprietà della materia che si manifesta attraverso forze attrattive o repulsive ma può connotare anche “pericolo".
Il rapporto di connotazione si pone quando una coppia formata dal significante e dal significato denotato, diventano insieme il significante di un significato aggiunto.
Per esempio il termine "cane" denota un certo tipo di animale che “abbaia alla luna" ma connota anche "cattivo tenore". Però il significato "cane" non si trova nello stesso tipo di rapporto sia rispetto al concetto di carie che a quello di cattivo tenore. La connotazione si stabilisce non sulla base del semplice significante, ma del significante e del significato denotativo uniti.
Ora, tutti coloro che usano il codice "lingua italiana" sanno cosa denota la parola "cane". Non è detto invece che tutti sappiano che connota "cattivo tenore", e sovente questa connotazione è resa evidente solo dal contesto dell’enunciato. Diremo quindi che, mentre i significati denotativi sono stabiliti dal codice, quelli connotativi sono stabiliti da sottocodici o"lessici" specifici comuni a certi gruppi di parlanti e non a tutti; fino al limite estremo in cui, in un discorso poetico, una connotazione viene istituita per la prima volta (una metafora ardita, una metonimia inusitata) e in tal caso il destinatario deve inferire dal contesto l’uso connotativo proposto (es.: convergenze parallele, strategia della tensione).


Informazioni date per scontate e informazioni nuove


Per comunicare efficacemente, il parlante deve tener conto dell’ascoltatore a cui si rivolge. Quali sono le cose che sa già? Fra le cose nuove, quali potrebbero interessarlo?
Si parla allora di:
informazioni date per scontate,

informazioni nuove.
Si può dire “Era Gianni che insegnava a Roma”, oppure “È a Roma che Gianni ha insegnato”. Le nuove informazioni sono solitamente segnalate dall’accento focale della frase, cioè della parola o sottofrase su cui, parlando, si calca la voce. Anche l’uso di soggetto e predicato si ricollega alla discriminante tra informazioni nuove e scontate. Il soggetto di una frase identifica ciò di cui il parlante vuol dire, e il predicato identifica quel che vuoi dirne. “Pino cucinò il pesce” è diverso da “il pesce fu cucinato da Pino”. La scelta del soggetto, dunque, indica ciò di cui si vuoi parlare. Spesso in italiano il soggetto rappresenta l’informazione data per scontata, e il predicato la nuova.


Noi conosciamo buona parte di quel che ci comunicano

È necessario postulare l’esistenza di simboli universalmente accettati per spiegare la possibilità della comunicazione, in altre parole:
noi conosciamo buona parte di quel che ci comunicano
o, piu precisamente, “noi dobbiamo conoscere il significato degli strumenti espressivi che vengono usati da chi sta comunicando con noi”. Se rovesciamo il discorso e ci caliamo nei panni di chi vuoi comunicare, allora è necessario usare strumenti espressivi - “simboli” - che l’altro sia in grado di decodificare.
Nella lingua l’utilizzazione di messaggi è governata da regole che formano un codice. È attraverso la conoscenza del codice - che è comune a chi emette e a chi riceve il messaggio - che si realizza la comunicazione.
La conoscenza del codice ci porta a continui sistemi di attese. Durante un discorso o brano musicale o analizzando un’immagine, noi riusciamo a “capire” (anzi a “prevedere”) ciò che uno ci dice (o ciò che ci suona) un momento prima che ci venga detto. La comunicazione avviene attraverso un materiale (le parole, le frasi, le note, gli accordi, i quadri, le foto, ecc.) di cui già conosciamo il codice, cioè le norme che governano la sua organizzazione. Perché le canzoni dei cantautori piacciono? Perché essi sono in grado di manipolare il materiale sonoro in maniera perfettamente prevedibile, e infatti le loro canzoni si imparano subito, diciamo che sono “facili” perché, in qualche modo, assomigliano a quelle che già conosciamo. Invece nella musica “seria” contemporanea, i musicisti hanno la caratteristica di lasciare sempre le nostre attese sospese e mai risolte, complicandoci l’ascolto con un uso inconsueta dei codici, riescono a colpire la nostra “pigrizia” senza alcun rispetto per i nostri sistemi di attese. È una musica che va ascoltata più volte fino a riuscire a coglierne le regole, anche quelle più sottili e, magari, contraddittorie, fino a che anche quella musica diventa “prevedibile”. Naturalmente, nel frattempo, altri musicisti che avranno composto suoni - o meglio collegato suoni già esistenti nella realtà - saranno riusciti a complicare anche quelle regole che si era riusciti faticosamente a controllare, in maniera da colpire di nuovo la nostra pigrizia. Compito degli artisti è distruggere le certezze, è incrinare la serenità - il non-pensiero - perché essi sono “il sale della terra”.

Dunque un’alta parte degli strumenti usati come “contenitori” di messaggi, devono possedere già un significato che sia comune a chi emette e a chi riceve il messaggio, altrimenti non potrebbero comunicare informazioni nuove. Il paradosso è dunque che il ricevente deve conoscere gran parte di quello che gli si sta per dire, deve cioè esistere un vocabolario comune a chi emette e a chi recepisce. Il testo è un pallone sgonfio, a meno che il lettore non possieda un quadro interpretativo che gli consenta di soffiargli significato dentro.


La vita in gruppo potrebbe avere aperto la strada all’evoluzione di un’intelligenza di tipo umano in due modi. Con un gruppo già costituito, il valore di disporre di migliori informazioni si moltiplica, perché l’informazione è l’unico bene che possa venire ceduto e conservato nello stesso tempo. Quindi un animale più in gamba, a vivere in gruppo, gode di un doppio vantaggio: quello del sapere e quello di scambiare il sapere con qualcos’altro.
Pinker Steven, “Come funziona la mente”, p. 206


Una laurea finta nel cestino della carta straccia

Durante l’estate del 1952 Carl Seelig, uno dei primi biografi di Einstein, scrisse allo scienziato chiedendogli di fornirgli alcuni dati relativi alla sua prima laurea honoris causa. Nella sua risposta, Einstein accennò ad avvenimenti che risalivano al 1909, il periodo in cui egli lavorava ancora nell’Ufficio brevetti di Berna, benché quattro anni prima avesse elaborato la sua teoria speciale della relatività. Nell’estate del 1909 l’università di Ginevra conferì piú di cento lauree honoris causa in occasione del 350° anniversario della sua fondazione da parte di Calvino; segue il resoconto di Einstein sull’accaduto:
«Un giorno ricevetti all’Ufficio brevetti di Berna una grande busta dalla quale estrassi un foglio dall’aspetto ufficiale. Recava in eleganti caratteri (mi pare che fosse addirittura in latino) [In realtà il testo, stampato in corsivo, era in lingua francese] un messaggio che mi parve impersonale e di scarso interesse. Finì subito nel cestino. Piú tardi appresi che si trattava dell’invito alle celebrazioni in memoria di Calvino e dell’avviso che avrei ricevuto la laurea honoris causa dall’università di Ginevra.»
Dukas H. Hoffmann B., “Albert Einstein il lato umano“, Einaudi, pag. 6


Si può sperare che la gente continui a leggervi solo se si scarta tutto quello che non è rilevante

Nel marzo 1927 Einstein tenne una conferenza che venne trascritta da un membro del pubblico, il quale suggerí ad Arnold Berliner, direttore della rivista scientifica «Die Naturwissenschaften», di pubblicarne il testo. Segue la risposta di Einstein alla proposta di Berliner:
Non sono favorevole alla pubblicazione, perché il testo non è sufficientemente originale. Bisogna essere particolarmente critici nei confronti del proprio lavoro. Si può sperare che la gente continui a leggervi solo se, per quanto è possibile, si scarta tutto quello che non è rilevante.
Dukas H. Hoffmann B., “Albert Einstein il lato umano“, Einaudi, pag. 20


Ogni giorno Einstein mi spiegava la sua teoria. Al nostro arrivo ero pienamente convinto che lui la capisse perfettamente

Einstein aveva già riflettuto molto sull’argomento “sionismo”. All’inizio del 1919 - prima della conferma della teoria generale della relatività verificata durante l’eclisse e quindi prima della fama mondiale di Einstein - Kurt Blumenfeld, un funzionario sionista, aveva accennato alla questione con lo scienziato. Due anni dopo, Blumenfeld convinse Einstein ad accettare l’invito di Chaim Weizmann ad accompagnare quest’ultimo negli Stati Uniti per raccogliere fondi per la futura Università ebraica di Gerusalemme. Weizmann, capo del movimento sionista internazionale - e futuro primo presidente dello stato di Israele - era anche uno scienziato. Parlando del viaggio insieme a Einstein, disse: «Ogni giorno Einstein mi spiegava la sua teoria. Al nostro arrivo ero pienamente convinto che lui la capisse perfettamente».
Dukas H. Hoffmann B., “Albert Einstein il lato umano“, Einaudi, pag. 57


L’etichetta della spartizione in un classico televisivo americano


The Honeymoorzers. Ralph Kramden, Ed Norton e le loro mogli hanno deciso di dividere un appartamento. A tavola sorgono problemi fra gli uomini:
Ralph: Quando lei ha messo sulla tavola due patate, una grossa e una piccola, tu hai immediatamente preso quella grossa, senza chiedermi che cosa volevo.
Norton: Tu che cosa avresti fatto?
Ralph: Io avrei preso quella piccola, ovviamente. Norton: Davvero? (con l’aria di non credergli) 
Ralph: Sì, certo!
Norton: E allora di che ti lamenti? HAI AVUTO quella piccola!
De Waal F., “Naturalmente buoni”, Garzanti, pag. 177


Perché l’emittente dovrebbe regalare un’informazione a un concorrente nell’evoluzione

La comunicazione che trasmette informazioni vere è rara in natura perché l’altruismo è raro. Come abbiamo visto nel precedente capitolo, le teorie più ingenue dell’altruismo non possono spiegare la moralità umana. Perché dovremmo invocarle per spiegare il linguaggio umano?
Se il linguaggio è compreso solo in termini di trasmissione di informazioni, è ovvio che venga considerato come portatore di vantaggi più per il ricevente che per l’emittente. L’emittente conosce già l’informazione che sta trasmettendo e non impara nulla di nuovo condividendola, mentre il ricevente raccoglie informazioni utili semplicemente ascoltando. L’informazione in questo senso è analoga al cibo: è meglio ricevere che dare. Secondo le teorie dell’altruismo di parentela e della reciprocità, il vantaggio principale del linguaggio va al ricevente. Questa osservazione porta a una interessante previsione: dovremmo essere una specie di eccellenti ascoltatori, ma poco disposti alla chiacchiera. Dovremmo ritenere l’ascolto attento e silenzioso come una tollerabile manifestazione di egoismo e il chiacchierare senza posa come un atto di altruismo perfetto. La gente dovrebbe spendere un’enorme quantità di denaro per togliersi il vizio dello psicoterapeuta, che sta li tutto il giorno ad ascoltare i segreti più profondi degli altri e rivela cosi poco di sé.
Questa non è la specie umana che conosco. Diamo un’occhiata a un qualsiasi gruppo di persone che conversano tra loro e vedremo l’esatto opposto del comportamento previsto dalle teorie del linguaggio desunte dall’altruismo di parentela e dalla reciprocità. La gente lotta per poter esprimere la propria opinione. Si batte per essere ascoltata. E quando sembra aver ottenuto ascolto, la gente spesso racconta ciò che ha in testa senza curarsi troppo di assimilare quello che è stato appena detto dagli altri. Le persone che parlano in continuazione senza raccogliere l’attenzione dei colleghi sono considerati egocentrici, non altruisti i e regole per prendere la parola in assemblea sono state elaborate non per regolamentare chi ascolta, ma chi parla. Per gli psicoterapeuti usare i metodi «non-direttivi» invocati da Carl Rogers — nel quale il terapeuta non dice nulla al cliente a eccezione di perifrasi di ciò che ha udito — richiede un’inibizione quasi sovrumana della nostra volontà di parlare.
Né si può dire che le teorie dell’altruismo di parentela e della reciprocità siano particolarmente predittive circa la nostra anatomia. Se parlare fosse il costo e ascoltare fosse il beneficio di una conversazione, allora il nostro apparato vocale, che sostiene il costo del nostro altruismo informativo, dovrebbe essere rimasto rudimentale e conservativo, capace solo di sussurri stentati e mormorii inarticolati. Le nostre orecchie, che godono dei vantaggi dell’acquisizione di informazione, dovrebbero essere invece enormi, con padiglioni auricolari che possono essere orientati in tutte le direzioni per captare i messaggi di intelligenze riluttanti a offrire informazioni ai propri pari. E di nuovo, siamo all’opposto di ciò che osserviamo nella realtà. Il nostro apparato uditivo rimane, da un punto di vista evoluzionistico, conservativo, molto simile a quello delle altre scimmie antropomorfe, mentre il nostro apparato vocale è stato profondamente ristrutturato. L’adattamento evolutivo ha preso di mira più le strutture che servono a parlare che quelle che servono ad ascoltare. Il nostro comportamento nelle conversazioni e i dati anatomici suggeriscono che la parola nasconda vantaggi evoluzionistici superiori a quelli dell’ascolto.
Miller G., “Uomini, donne e code di pavone”, Einaudi


Via: www.ilpalo.com

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