Saturday 20 December 2008

La preistoria del linguaggio: storia del cervello e della comunicazione interpersonale

La coscienza deriva da relazioni tra la percezione e la categorizzazione

La coscienza è comparsa come risultato della selezione naturale. Farsi guidare dalla coscienza è efficace e, in alcuni ambienti, aumenta l’idoneità. 
La coscienza deriva da un insieme particolare di relazioni tra la percezione, la formazione dei concetti e la memoria: funzioni psicologiche che dipendono dai meccanismi cerebrali dellacategorizzazione.

I centri concettuali del cervello trattano i simboli, i riferimenti ai simboli e le immagini mentali che essi evocano, come se fossero parte di un mondo “indipendente”da sottoporre a ulterioricategorizzazioni. Ormai son diventati oggetti interni alla mente.

L’interazione tra i centri del linguaggio e i centri concettuali rende possibile un’esplosione di concetti e una rivoluzione nelle procedure mentali. In questo modo emergono i concetti del sé, di un passato e di un futuro. Il risultato è un modello del mondo più che di una nicchia ecologica, insieme con modelli del passato, del presente e del futuro. Noi viviamo contemporaneamente su diversi livelli.
Edelmann G., “Il presente ricordato”, Rizzoli, pag. 232


L’invenzione del linguaggio interiore

 

Si consideri un tempo quando il linguaggio cominciava appena a svilupparsi. I nostri antenati erano dei bipedi onnivori che avevano sviluppato delle abitudini di vocalizzazione finalizzate a scopi specifici, simili a quelle degli scimpanzé e dei gorilla (Cheney e Seyfarth, 1990). 
Possiamo supporre che gli atti comunicativi (o quasi-comunicativi) eseguiti tramite queste vocalizzazioni, non fossero ancora degli atti linguistici completamente sviluppati, in cui l’intenzione del Parlante di raggiungere un certo effetto nell’Uditorio dipende dal riconoscimento da parte dell’Uditorio di quella stessa intenzione. 
Possiamo supporre che questi nostri antenati discriminassero tra differenti parlanti e uditori in occasioni differenti. Ora accadeva talvolta che quando uno di questi ominidi si trovava in difficoltàcon un progetto, «chiedesse aiuto», e in particolare «chiedesse informazioni». Talvolta qualcuna delle persone presenti poteva rispondere «comunicando» qualcosa che aveva l’effetto giusto sul richiedente, facendogli «vedere» una soluzione al problema.

Questo era più che normale nel rapporto madre-figlio, ma spesso accadeva anche nell’interscambio con altri membri della tribù.
Affinché questa pratica potesse prendere piede nella comunità, era necessario che il richiedente fosse in grado di contraccambiare, al momento opportuno, nel ruolo di rispondente. Tutti dovevano essere dotati della capacità comportamentale di sentirsi spinti a pronunciare occasionalmente qualcosa di «utile» quando sottoposti alla «richiesta» di altri. 
Per esempio, se un ominide conosceva qualcosa e gli veniva rivolta una «domanda» su di essa, ciò avrebbe avuto l’effetto normale, ma sicuramente non privo di eccezioni, di spingerlo a «dire ciò che sapeva».

Poi un bel giorno (in questa ricostruzione teorica), uno di questi ominidi chiese aiuto «erroneamente» quando non c’era nessun uditorio utilizzabile a portata di voce - tranne lui stesso
Quando udì la sua propria richiesta, la stimolazione lo spinse a produrre proprio quel tipo di vocalizzazione in aiuto di altri che la richiesta da parte degli altri avrebbe provocato. 
E con grande gioia, quella creatura scoprì che aveva spinto se stesso a rispondere alla sua propria domanda.

La pratica di porre domande a se stessi sorge come naturale effetto collaterale del porre domande agli altri. Affinché una pratica del genere sia utile è necessario che le preesistenti relazioni di accesso nel cervello dell’individuo non siano ottimali. 
Si deve supporre che, benché all’interno del cervello ci sia già la giusta informazione per qualche scopo, essa sia in mano allo specialista sbagliato. Il sottosistema nel cervello che ha bisogno dell’informazione non può ottenerla direttamente dallo specialista, perché l’evoluzione semplicemente non ha avuto il tempo di fornire un tale «filo». 
Spingere lo specialista a «mandare in onda» l’informazione nell’ambiente, comunque, e poi affidarsi ad un paio di orecchie esistenti (e un sistema uditivo) per captarla, costituisce un modo per costruire un «filo virtuale» tra i sottosistemi pertinenti.

Una volta che abitudini ancora rozze di autostimolazione vocale iniziano ad affermarsi come “Buoni Trucchi”, possiamo congetturare che vengano riconosciute le speciali virtù del parlare a se stessosotto voce, che conducono successivamente ad un parlare a se stesso del tutto silenzioso. 
Il processo silenzioso mantiene il circuito autostimolativo, ma si disfa delle parti auditive e di vocalizzazione periferica, che non sono essenziali. Questa innovazione hal’effetto ulteriore di raggiungere una certa privatezza della pratica di autostimolazione cognitiva.

Il comportamento privato di “parlare a se stesso” è un miglioramento a portata di mano. È lento e laborioso in paragone ai processi cognitivi veloci e inconsci su cui è basato, giacché deve far uso di larghi tratti del sistema nervoso «progettati per altri scopi», in particolare per la produzione e la comprensione del discorso udibile. È altrettanto lineare e limitato ad un argomento alla volta. Dipende, almeno al principio, dalle categorie informazionali incorporate nelle azioni che sfrutta. Se ci fossero solo cinquanta cose che un ominide può «dire» a un altro, ci sarebbero solo cinquanta cose che egli può dire a se stesso.
Dennet, “Coscienza”, Rizzoli, pag. 225


Per scheggiare una pietra non serve il linguaggio

Quando l’uomo antico non aveva ancora un linguaggio verbale, in che modo poteva operare o comunicare? 
Secondo Julian Jaynes la risposta è semplice: esattamente come tutti gli altri primati, ossia con un’abbondanza di segnali visivi e vocali che erano assai lontani dal linguaggio sintattico che noi usiamo oggi. 
Dice Jaynes :
“I linguisti giurano che, per poter trasmettere abilità rudimentali da una generazione all’altra, doveva esistere il linguaggio. Ma consideriamo che è quasi impossibile descrivere mediante il linguaggio come si possono ottenere utensili scheggiando la selce
Quest’arte veniva trasmessa esclusivamente per imitazione, esattamente nello stesso modo in cui gli scimpanzé trasmettono l’uso di introdurre una pagliuzza in un formicaio per estrarne le formiche. E lo stesso problema della trasmissione della capacità di andare in bicicletta: in questo caso il linguaggio è davvero di qualche utilità?”

Jaynes ipotizza un’invenzione “tarda” del linguaggio, che inizia a dar segni tangibili poco prima dell’invenzione dell’agricoltura:
“Poiché il linguaggio deveintrodurre mutamenti molto vistosi, e poiché esso consente un trasferimento di informazione di grandissima portata, dev’essersi sviluppato nel corso di un periodo in cui resti archeologici documentino tali mutamenti. Un periodo del genere è il Pleistocene superiore, grosso modo fra il 70.000 e l’8000 a.C..”
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 165


I memi e l’evoluzione culturale

Come abbiamo appreso a mungere le mucche e poi ad addomesticarle per il nostro tornaconto, così abbiamo imparato a mungere le menti, nostre e degli altri, in determinate maniere. Il modo in cui la cultura è diventata un mezzo per conservare e trasmettere le innovazioni (non soltanto quelle che riguardano la coscienza) è importante per comprendere le origini della struttura della coscienza umana, giacché costituisce un altro mezzo di evoluzione.

Il genotipo umano include molti adattamenti che servono specificamente a facilitare l’acquisizione del linguaggio
I nostri primi antenati che hanno iniziato a parlare hanno quasi sicuramente avuto un bel da fare per riuscirci, ma noi siamo i discendenti dei virtuosi che c’erano tra loro.
Una volta che i nostri cervelli hanno costruito le strade di entrata e di uscita per i veicoli del linguaggio, essi vengono rapidamente parassitatida entità che si sono evolute per prosperare proprio in tali nicchie: i memi.

Io credo che proprio su questo pianeta sia venuto recentemente alla luce un genere nuovo di replicante. L’abbiamo sotto gli occhi: è ancora in una fase infantile, si muove goffamente qua e là nel suo brodo primordiale.
Questi nuovi replicanti sono, grosso modo, le idee. Non le «idee semplici» (l’idea del rosso o l’idea del cerchio o del caldo o del freddo), ma quel tipo di idee complesse che si strutturano in distinte unità degne di essere memorizzate, come le idee di:
ruota
indossare vestiti
vendetta
triangolo retto 
alfabeto.

Dawkins conia un termine per tali unità: memi- unità di trasmissione culturale o unità di imitazione. 
Esempi di memi sono le melodie, le idee, gli slogan e i modi di dire, le mode dell’abbigliamento, le tecniche per fabbricare vasi o per costruire archi. Come i geni si propagano nel fondo comune dei geni passando da un corpo all’altro con gli spermatozoi, così i memi si propagano passando da un cervello all’altro con un processo che, in senso lato, si può chiamare imitazione. 
Se uno scienziato legge o sente parlare di una buona idea, la trasmette ai suoi colleghi e ai suoi studenti, la menziona nei suoi articoli e nelle sue lezioni. Se l’idea attecchisce, si può dire che essa si propaga da sola diffondendosi da un cervello all’altro.

Molti dei memi che si replicano lo fanno non solo con la nostra benedizione, ma grazie alla nostra stima. Credo che si possa affermare tranquillamente che alcuni memi sono, tutto sommato, buonidalla nostra prospettivaMi riferisco a memi molto generali come la cooperazione, la musica, la scrittura, l’educazione, la consapevolezza ambientale, la riduzione degli armamenti; e memi particolari come Le nozze di Figaro, Moby Dick, i contenitori riciclabili, i trattati SALT. 
Altri memi sono più controversi; possiamo capire perché si diffondono e perché dopo tutto dobbiamo tollerarli malgrado i problemi che ci creano: i centri commerciali, i fast food, la pubblicità in televisione
Altri ancora sono sicuramente dannosi, ma estremamente difficili da sradicare: l’antisemitismo, il terrorismo, i virus dei calcolatori, le scritte che imbrattano i muri.
memi sono invisibili, e sono trasportati dai veicoli dei memi: immagini, libri, frasi (in particolari linguaggi, scritte o orali, sulla carta o supporti magnetici, ecc.). 
L’esistenza di un meme dipende dalla sua realizzazione fisica in qualche mezzo; se tutte le sue realizzazioni fisiche vengono distrutte, quel meme si è estinto. 
Dennet, “Coscienza”, Rizzoli, pag. 228


Scheggiare e utilizzare pietre

Secondo alcuni autori almeno tre serie di fattori determinano se un primate sarà o no in grado di imparare a usare un utensile. Innanzitutto, si presuppone una maturazione sensorio-motoria, che è necessaria per conseguire l’abilità e la precisione del movimento muscolare. In secondo luogo, si richiede il gioco con oggetti dell’ambiente, in contesti casuali o di soluzione di problemi: durante il gioco, per esempio, lo scimpanzè impara a usare un bastone come estensione funzionale del suo braccio. Infine, c’è un rinforzo connesso all’esito delle sue risposte, rinforzo che insegna all’individuo giovane che il suo proprio comportamento può, almeno in qualche misura, controllare l’ambiente.
La pesca delle termiti è una fra le forme più complesse di uso di utensili riscontrate in organismi non umani. Fra gli altri tipi osservati nell’ordine dei primati ci sono le seguenti categorie: estensione del raggio d’azione del braccio (usando per esempio un bastone per raggiungere del cibo); amplificazione della forza meccanica esercitata dall’individuo sull’ambiente (percotendo noci e frutti con pietre per aprirli); intensificazione del comportamento di esibizione (per esempio brandendo un bastone durante manifestazioni di aggressività); o miglioramento dell’efficienza con cui un individuo è in grado di controllare liquidi (per esempio, usando foglie come spugne per raccogliere acqua o eliminare sangue).

L’evoluzione degli esseri umani nel corso degli ultimi tre o quattro milioni di anni può essere descritta in funzione dell’uso sempre più complesso e raffinato di utensili.
Due o tre milioni di anni fa, l’uso di utensili da parte dell’Homo habilis rappresentò solo un modesto progresso rispetto a quanto i primati già stavano facendo da milioni di anni. Il repertorio di utensili base di questo periodo consisteva in pietre arrotondate che venivano usate come percussorí e pietre grezze usate per tagliare. A quest’epoca esseri umani preistorici cominciarono a usare pietre come percussori per staccare schegge da ciottoli. Battendo con forza due pietre una contro l’altra si producevano utensili come raschiatoi, con un bordo affilato che poteva essere usato per tagliare. Tali utensili rappresentarono un’autentica innovazione, consentendo agli antichi ominidi di usarne gli spigoli taglienti per tagliare pelli e sventrare le carcasse di animali uccisi.
Gli utensili da taglio (choppers) e le schegge in tal modo ottenuti costituirono la base della fabbricazione di utensili fino a un milione e mezzo di anni fa, quando cominciarono ad apparire grandi bifacciali o asce a mano (hand axes). L’essere che impugnava questi utensili era l’Homo erectus, che usava queste asce per operazioni di taglio più fini, più potenti e più precise. Nel corso del successivo milione di anni, forse fino a quarantamila o cinquantamila anni fa, i mutamenti nell’uso di utensili procedettero in modo lento e graduale. È presumibile che i procedimenti per costruire utensili venissero trasmessi da una generazione all’altra attraverso l’osservazione visiva e l’imitazione dei gesti, e che solo mutamenti molto lievi si producessero da una generazione all’altra. Forse mezzo milione di anni fa gli uomini cominciarono a produrre mediante percussioni utensili più raffinati; duecentomila anni fa, durante il periodo Acheuleano, si usò una martellinatura delicata con percussori d’osso per la scheggiatura e il ritocco; e centomila anni fa, durante il periodo Levalloisiano, si cominciava col distacco di schegge da un nucleo di pietra apposito, seguito dalla lavorazione o dal ritocco delle schegge stesse. Durante quest’intervallo di tempo di un milione di anni, venivano verificandosi negli esseri umani altri mutamenti, che si riflettono nel volume sempre crescente del cervello. Gli ominidi acquisirono il controllo del fuoco; in questo periodo si praticò una collettiva e brutale caccia di gruppo alla selvaggina grossa, attività che condusse fra l’altro al massacro di grandi mandrie di elefanti; gli individui eressero insediamenti.


Antropomorfe che scimmiottano

L’opinione che i primati eccellano nell’imitazione è così diffusa da averci indotto a creare il verbo scimmiottare, con cui solitamente intendiamo qualcosa di più del mero copiare un’azione altrui. 
L’imitatore per eccellenza è senza dubbio lo scimpanzé. Uno dei modi in cui i giovani dello zoo di Arnhem si divertivano era seguire in fila indiana una femmina di nome Krom, che significa «deforme», tutti con la sua stessa, patetica andatura. Un altro gioco era quello di camminare appoggiandosi ai polsi - e non alle nocche delle mani, come ogni scimpanzé che si rispetti - imitando la goffa locomozione di un maschio adulto del gruppo che nel corso di un conflitto aveva riportato gravi mutilazioni alle dita.

Gli scimpanzé in cattività, inoltre, osservando l’uomo imparano l’uso di strumenti come martelli, cacciaviti e scope. Che non sempre afferrino l’utilità dello strumento è stato osservato già nel 1896 da Robert Garner, un pioniere delle osservazioni sul campo. Quando gli misero in mano una sega, il suo scimpanzé «la utilizzò al rovescio, perché i denti erano troppo taglienti, ma le impresse il movimento giusto... Appoggiava la parte liscia della sega al bastone, e segava con l’energia di un operaio ottimamente pagato.»"
De Waal F., “Naturalmente buoni”, Garzanti, pag. 97


Via: www.ilpalo.com

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