Sunday 21 December 2008

I modelli mentali: il cervello e la memoria

Gli schemi mentali: i “concetti”

 

Il cervello ha degli schemi mentali, i concetti appunto, destinati ad accogliere ed ad ordinare le percezioni.

I concetti hanno varie caratteristiche:
1 - hanno caselle o variabili
2 - possono essere inclusi all’interno di altri schemi, un concetto può rimandare ad un altro concetto
3 - variano per il livello di astrattezza
4 - rappresentano delle conoscenze generali del mondo, più che definizioni di oggetti o eventi.

I concetti sono unità organizzate di conoscenze su eventi, situazioni o oggetti. Sono strutture mentali, e costituiscono gli elementi della nostra rappresentazione interiorizzata del mondo.

Gli schemi operano come sistemi di accettazione delle informazioni, inoltre funzionano daprogetto e stimolo nel raccogliere le informazioni dall’ambiente. I concetti registrano nettamente - specificano e delimitano - il campo in cui dobbiamo cercare i dati, e ci dicono quali sono leforme sotto cui è probabile che le informazioni si presentino. I concetti riducono la complessitàdel mondo, e forniscono attese percettive su ciò che probabilmente ci si presenterà.

Molti concetti sono parole e in quanto “parole” sono delle teorie relative agli oggetti, e possono essere usati per classificare situazioni mai incontrate. Proprio come le ipotesi scientifiche predicono l’esito di esperimenti, così le parole, essendo teorie relative agli oggetti, ci fanno prevedere ciò che è implicito nella parola-definizione della realtà che la mente sta esaminando in quel momento. La parola “martello” evoca un flusso di informazioni aggiuntive che mi ronzano nella testa: “Dove trovo qualcosa di simile al martello?”. Il concetto mi ronza nella testa  finchè non capisco quale delle informazioni collegate a “martello” mi può essere utile in un certo contesto.

La soluzione di problemi è spesso il risultato di un uso intelligente dei concetti. Il soggetto pensante, di fonte ad una situazione insolita, passa in rassegna tutti i nomi - tutte le parole - che conosce per spiegarsela. Tenta di attribuirle un concetto.
La maggior parte del lavoro del linguaggio verbale si compie assegnando etichette (arbitrarie per definizione) ai vari fatti dell’esperienza.


Il cervello costruisce modelli: “rimettere in ordine” una stanza

 

Il cervello costruisce modelli che costituiscono una descrizione fedele della realtà esterna, schemi che il soggetto ritiene attendibili
Il fatto che sia possibile “rimettere in ordine” una stanza, dimostra l’esistenza di un modello mentale di “stanza ordinata”, da cui far guidare le azioni.

Il sistema nervoso riflette l’esterno creando un modello interno dell’ambiente in cui vive. La realtà rivista dopo aver formulato un modello, o avendo in mente un concetto, è un riflesso dei concetti già costruiti in passato, è un riconoscimento che prevede un’attenzione alle differenze e alle somiglianze con l’archivio mentale.

L’esistenza di modelli all’interno del cervello permette, per così dire, di saggiare l’ambiente nella propria testa. Mentre si pensa, si sta scegliendo di esplorare una “rappresentazione sostitutiva”, cioè un “modello” dell’ambiente.


Concentrarsi su modelli mentali trascendendo la materialità

 

Dice Robert Pirsig in “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”:
”Si ripara una motocicletta o un qualsiasi sistema guasto, confrontandolo mentalmente con un modello di sistema funzionante. 
Facendo le giuste domande e verifiche e traendo conclusioni adeguate, il riparatore si farà strada attraverso i vari gradi della gerarchia della sistema su cui sta operando, fin quando non troverà ciò che non funziona. Si sta concentrando su immagini mentali, sul concetto di “sistema funzionante”, su gerarchie e non ancora sulla materialità della moto che non parte.

Il riparatore nel suo esplorare un “modello di moto funzionante”, può formulare un esperimento di prova. Se ipotizza che ci possano essere problemi all’impianto elettrico, sostituisce la candela.
Sta usando gli esperimenti per allargare la gerarchia della conoscenza del guasto e del problema. Così anche l’artista, il cui problema è il “quadro che ancora non esiste”, lo paragona alla gerarchia corretta che ha in testa. 
Meccanico e artista stanno guardando la forma soggiacente.
Pirsig R., Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Adelphi


Una mente è un generatore di aspettative

“Il compito di una mente è di produrre futuro”, come disse una volta Paul Valéry. Una mente è, ridotta all’essenziale, un sistema capace di anticipazione, un generatore di aspettative. Essascava nel presente alla ricerca di indizi, che poi perfeziona con l’aiuto dei materiali preservati dal passato, trasformandoli in anticipazioni del futuro
E poi agisce, il più possibile razionalmente, sulla base di queste anticipazioni conquistate al prezzo di un così duro lavoro.
Dennett, Daniel, “La Mente e le Menti”, Euroclub, pag. 69

Imporre un proprio modello inadatto alla realtà

Un errore tipico è imporre un proprio modello inadatto alla realtà
Diceva Kant: “Il nostro intelletto non trae le proprie leggi dalla natura, ma le impone ad essa”, e fin qui va bene, perchè solo in questo modo può crescere la conoscenza umana. Però bisogna tener conto che ciò non implica che le nostre deduzioni – che per necessità spesso si basano su informazioni incerte - siano necessariamente vere. 
La natura, assai spesso, si oppone molto efficacemente, costringendoci ad abbandonare le nostre ipotesi in quanto confutate, ma finchè viviamo possiamo riprovarci ancora.


Far morire i modelli mentali

 

La più grande risorsa dell’uomo è commettere errori. Attenzione: li possiamo chiamare “errori” solo quando siamo riusciti ad individuarli come tali. Un errore evitato in sede di progettazione mentale è il più economico, quello da ricercare. Un piano abortito consuma pochissima energia, e relativamente poco tempo. Importante è fare errori il prima possibile, possibilmente quando il lavoro è ancora al livello della disamina mentale o dopo un minimo di verifiche esterne. Diventa comodo allora “far morire i modelli”, saper scartare l‘idea riconoscendovi un errore prima di metterla in pratica, operando esclusivamente all’interno del cervello.

Il sistema comporta la preselezionedi tutti i comportamenti o le azioni possibili, in modo che le mosse veramente stupide vengano scartate prima di azzardarle nella «vita reale». 
I beneficiari di questa preselezione possono essere chiamati creature popperiane in quanto, come disse molto elegantemente il filosofo Karl Popper, questo miglioramento del progetto «consente alle nostre ipotesi di morire al posto nostro».
Dennett, Daniel, “La Mente e le Menti”, Euroclub, pag. 102


Il cervello filtra l’abituale ed è attento alla novità

 

Un rivelatore di insetti è un neurone apparentemente cieco a tutto tranne che a piccoli oggetti che si muovono contro lo sfondo. Appena un insetto entra nel campo recettivo di tale cellula, essa si attiva al massimo e a quel punto, probabilmente, la rana fa scattare la lingua per catturare la preda. Ma per un sistema nervoso abbastanza complesso, anche il movimento di un insetto è ridondante se si verifica su una linea retta. Una volta saputo che un insetto si sta dirigendo stabilmente verso nord, si può presumere che continui ad andare verso nord finché non si venga informati di un cambiamento. Proseguendo sul filo di questo ragionamento, sarebbe lecito aspettarsi che certi neuroni cerebrali rilevassero movimenti di un ordine superiore, ovvero che fossero particolarmente sensibili a un’alterazione del movimento, per esempio a un cambiamento nella direzione o nella velocità. In effetti, Lettvin e i suoi colleghi scoprirono nella rana una cellula nervosa che sembrava fare proprio questo.
È come se, a tutti i livelli della «gerarchia», il sistema nervoso fosse preposto a rispondere con forza all’imprevisto e a rispondere poco o nulla al previsto. 
Che cos’accade a livelli sempre più alti? 
Accade che la definizione di «previsto» si fa sempre più sofisticata. Al livello più basso, ogni punto luminoso rappresenta una notizia; a quello successivo solo i contorni vengono interpretati come novità; a quello ancora successivo, poiché molti contorni sono diritti, solo le loro estremità sono considerate informative; a quello superiore ancora, soltanto il movimento fa notizia. Poi fanno notizia unicamente le alterazioni nel ritmo o nella direzione del movimento. Come osserva Barlow, che ha preso in prestito la terminologia dalla teoria dei codici, potremmo affermare che il sistema nervoso usa parole brevi ed economiche per i messaggi previsti e frequenti, e parole lunghe e costose per i messaggi imprevisti e rari. La stessa cosa si verifica in ambito linguistico, dove (per la cosiddetta legge di Zipf) le parole più brevi del dizionario sono quelle usate più spesso nel parlato. Per dirla in termini quasi paradossali, il cervello perlopiù non ha bisogno di essere informato di nulla, perché ciò che accade è la norma e il messaggio sarebbe ridondante. Esso si difende dalla ridondanza attraverso una gerarchia di filtri, ognuno dei quali ha il compito di eliminare una specifica caratteristica prevista.
Possiamo considerare ciascun cervello un organo dotato di un archivio di immagini fondamentali, che serve a definire caratteristiche rare o comuni del mondo dell’animale. Anche se, seguendo Barlow, ho spiegato come questo archivio venga riempito attraverso l’apprendimento, non c’è ragione di escludere che la stessa selezione naturale, operando sui geni, partecipi al processo di immagazzinamento. Seguendo la logica del capitolo precedente, dovremmo dire allora che l’archivio mentale contiene anche immagini del passato ancestrale della specie; e potremmo chiamarle inconscio collettivo, se l’espressione non fosse stata inquinata dalle teorie junghiane.
Dawkins R., “L’arcobaleno della vita”, Mondatori, pag. 238


Le risorse del cervello: migliaia di subroutine

Noi abbiamo migliaia di subroutine, di procedure automatizzate, motorie o mentali, che vengono eseguite dalla mente senza grande fatica (dal palleggiare a pallacanestro, al fare una moltiplicazione a due cifre), lasciando all’attenzione - alle zone frontali del cervello - solo il compito di seguirle, diciamo, con un occhio solo.


Una bambina cieca-sorda-muta impara una nuova parola

Il passaggio dal gesto alla parola al concetto è riassumibile con un brano centrale dell’autobíografia della Keller, nata cieca-sorda-muta, a cui si comunicava digitando segni sul palmo della mano.
Il brano si riferisce al primo incontro con la maestra Anna Sullivan.
“… io giocai un po’ con la bambola, mentre la signorina Sullivan scandiva sulla mia mano la parola « b-a-m-b-o-l-a ». Subito mi interessai al gioco delle sue dita, cercando di imitarlo e, quando, finalmente, riuscii a formare correttamente la parola mi gonfiai di orgoglio e di gioia infantile. Corsi giù dalla mamma e tenendola per la mano formai le lettere della parola bambola. Non sapevo di compitare una parola, anzi, non sapevo neppure che le parole esistessero, ma muovevo le dita, imitando i gesti come una scimmia.
Nei giorni seguenti imparai a compitare in quel modo strano molte parole come: spillo, cappello, tazza, e qualche verbo come: sedere, stare e camminare. Ma mi ci vollero parecchie settimane prima di arrivare a rendermi conto che ogni cosa aveva un nome.
Un giorno, mentre giocavo con la bambola nuova, la signorina mi mise in grembo anche la mia grossa bambola di stoffa e compitò: « b-a-m-b-o-l-a » e cercò di farmi capire che la parola « b-a-m-b-o-l-a » si riferiva a tutte e due.
Pochi giorni dopo avemmo uno scontro per le parole: « t-a-z-z-a » e « a-c-q-u-a ». La signorina aveva cercato di imprimermi bene in mente che: « t-a-z-z-a » è tazza e « a-c-q-u-a » è acqua, ma io continuavo a confondere le due cose. Allora la signorina accantonò la questione, per riprenderla al momento opportuno.
La signorina mi portò il cappello ed io capii che saremmo andate a godere il tepore del sole: questo pensiero, se si può chiamare pensiero una sensazione inarticolata, mi fece saltare e sgambettare per la gioia.
Ci avviammo al sentiero che conduceva al pozzo, attratte dalla fragranza del caprifoglio che lo ricopriva. Qualcuno attingeva l’acqua, e la maestra mise la mia mano sotto il getto, poi, mentre la corrente fresca mi scorreva sulla mano, scandì sull’altra la parola « acqua », dapprima lentamente e poi sempre più presto. Io stavo lì, immobile, tutta intenta al movimento delle sue dita. All’improvviso ebbi la oscura percezione di qualcosa di dimenticato - un fremito per la ricomparsa di un pensiero sopito - e mi si svelò il mistero del linguaggio. Capii che « acqua » significava quella frescura meravigliosa che scorreva sulla mia mano. Le parole vivificatrici risvegliavano l’anima mia, la illuminavano, la allietavano, le donavano la speranza. Le barriere c’erano ancora, è vero, ma col tempo sarebbero state abbattute.
Mi allontanai dal pozzo tutta presa dall’ansia di imparare. Tutte le cose avevano un nome ed ogni nome faceva nascere un nuovo pensiero.
Tornata a casa mi sembrava che ogni oggetto che toccavo vibrasse di una nuova vita. Era perché io vedevo tutto con la strana vista che avevo appena ricevuta.
Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 129


Leggere ad alta voce ha effetti mentali diversi dalla lettura silenziosa

Sono rimasto meravigliato venendo a sapere dagli studi sulla comunicazione nel mondo antico, che la lettura in silenzio, come state facendo voi leggendo queste righe, allora fosse rarissima. Questo comportamento era usuale nel mondo antico ,per cui le biblioteche non avevano una sala di lettura, ma praticamente erano solo un deposito, mentre i libri si leggevano sotto il colonnato adiacente.
Mc Luhan citava uno studio di Jean Leclerq:
«Nel Medioevo, come nell’antichità, la gente leggeva non come oggi, principalmente con gli occhi, ma con le labbra, pronunciando quello che gli occhi vedevano, e con le orecchie, ascoltando le parole pronunciate, udendo quelle che vengono chiamate le «voci delle pagine». 
La conseguenza è ben più di una semplice memoria visiva delle parole scritte. Il risultato è una memoria muscolare delle parole pronunciate e una memoria uditiva delle parole sentite [... ]. Questa ripetuta masticazione delle parole divine viene talvolta descritta usando la tematica del nutrimento spirituale [... ]. Meditare vuol dire attaccarsi da vicino alla frase che viene recitata e soppesarne le parole per potere penetrare la profondità del loro pieno significato. Vuol dire assimilare il contenuto di un testo attraverso una sorta di masticazione che ne fa uscire tutto il sapore.»
Si ritiene che il pensiero possa trovare una sua espressione verbale sia in forma di linguaggio a voce alta (come quando un bambino parla da sé, a voce alta, mentre gioca o risolve un problema), sia nella forma ínteriorizzata. È opinione unanime che il linguaggio interiore sia la forma più avanzata, e la più tarda a comparire in età infantile, di pensiero verbale. Qui il linguaggio non è più articolato, esteso, grammaticalmente e sintatticamente organizzato, come nella espressione a voce alta. È invece contratto, senza riferimenti o esplicitazioni superflui per chi parla con se stesso. La lettura a voce alta impegna la mente in operazioni attentive (tono della voce, pronuncia, ecc.) che distolgono la corrente del pensiero dai percorsi evocati dai contenuti del testo. Le ricerche sulla lettura hanno mostrato che il lettore abile non scorre il testo lettera per lettera, parola per parola, ma segue strade diverse: ora anticipa, saltando, le parole o le righe, ora ritorna indietro, in funzione dei contenuti che gli sono noti o ignoti, in funzione delle sue aspettative e del suo interesse. Da pochi frammenti effettivamente letti, la mente può estrarre il contenuto generale
Tutto ciò non è possibile nella lettura a voce alta che richiede un’adesione completa alla sequenza fissata delle lettere e delle parole. Oggi ci sembra quasi impossibile che quando i filosofi del passato riflettevano sui testi dei loro maestri lo facessero leggendo a voce alta, imbrigliando il proprio pensiero.
Se per secoli la rappresentazione del mondo è passata attraverso l’udito, attraverso le parole, dando una struttura mentale definita a chi quella rappresentazione produce e a chi la recepisce, gradualmente è avvenuta una ristrutturazione in cui l’udito e la memoria hanno acquisito un peso diverso rispetto alla visione, che sarebbe divenuta il perno delle funzioni mentali. Mentre il linguaggio restringeva la sua funzione a strumento della comunicazione interpersonale o del deposito della memoria collettiva nei libri stampati, la visione assumeva il ruolo di strumento di creatività.

Le lettere erano maiuscole e solo intorno al III sec. d. C. comparivano le minuscole.

L’invenzione dei titoli dei libri

Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 155


Le parole per i colori

Prendiamo come esempio della trasformazione funzionale delle strutture cerebrali il caso dei colori e della scrittura, che abbiamo già esaminato precedentemente. 
Quando si denomina una certa lunghezza d’onda (« questo è rosso », « questo è giallo », ecc.) si è stabilita, tra le strutture implicate nella decodificazione dell’informazione « lunghezza d’onda » e quelle implicate nelle funzioni linguistiche, una nuova ínterazione funzionale che precedentemente non era già implicita nelle funzioni di queste strutture. Si poteva cioè percepire i colori, senza saperli denominare, e allo stesso tempo si poteva parlare, senza conoscere i nomi dei colori.
Il fatto che il bambino impari a legare le lunghezze d’onda alle parole non è un fenomeno scontato, già programmato nella memoria genetica della specie umana. È una possibilità che viene attuata per l’influenza del contesto sociale in cui il bambino cresce. Quando
vengono insegnati i nomi dei colori, si forma una connessione funzionale tra strutture che hanno già una propria funzione, questa sì geneticamente predeterminata. Rispetto a quest’ultime la nuova connessione, il nuovo « sistema funzionale » (espressione di Vygotskij e Lurija), ha un’origine sociale. Si è già affermato che la connotazione sociale è legata a fattori storici, nel senso che nella storia dell’uomo l’influenza sociale sullo sviluppo dei processi mentali è stata diversa. Così, per i colori, nelle varie culture la denominazione ha avuto un’evoluzione, da un numero ristretto di denominazioni a una gamma sempre più vasta oppure anche regressioni come nel caso dei dialetti in cui si sono persi nomi già acquisiti nella lingua da cui sono derivati. Quando il bambino apprende i nomi dei colori, e forma quindi nel suo cervello nuove connessioni di origine sociale, di fatto è influenzato da fattori più generali di carattere storico - la lingua parlata, la cultura cui appartiene - in relazione all’epoca storica in cui vive.
Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 161


La scrittura ristruttura la mente

Un sistema funzionale cerebrale di origine storica è inoltre la scrittura. Per scrivere occorre la partecipazione di varie strutture cerebrali, ciascuna delle quali ha una funzione specifica, ma nessuna ha quella della scrittura in sé. La scrittura è infatti funzione di un insieme (sistema) di funzioni che interagiscono dal momento in cui si apprende a scrivere. Senza addentrarci nella descrizione dell’organizzazione cerebrale implicata nella scrittura, basta notare come vi si richieda la partecipazione delle aree del linguaggio (si deve scrivere una parola che già si conosce per averla udita), delle aree visive (si devono conoscere i segni visivi corrispondenti all’informazione verbale uditiva), delle aree motorie (per tracciare i segni specifici sulla carta si deve attuare un programma motorio che la mano esegue). Quando il bambino impara a scrivere mette in interazione queste aree diverse. Anche qui va precisato che le aree hanno funzioni (uditive, visive, motorie) già determinate geneticamente. La nuova funzione (la scrittura) invece si sviluppa solo se il bambino cresce in un contesto sociale dove essa viene « coltivata ». Allo stesso modo che per i colori, la scrittura ha caratteristiche che variano da cultura a cultura e che richiedono un’organizzazione cerebrale spesso particolare. Si ricordino la scrittura giapponese e l’interazione funzionale cerebrale in essa implicata. Nella scrittura è ancora più evidente la storicità di un sistema funzionale cerebrale. Infatti questa nuova funzione si è sviluppata in un dato momento della storia dell’uomo. Da quel momento il cervello, in chi aveva appreso la scrittura, poteva lavorare in modo diverso.
Vi sono dunque due dimensioni della storicità del cervello umano. La prima è di lunga durata e si manifesta nelle trasformazioni che le funzioni cerebrali superiori, la mente, hanno avuto nei secoli della storia dell’uomo. La seconda riguarda le differenze tra individui di una stessa epoca. Della prima dimensione vi sono solo documenti artistici e letterari. Ho cercato di darne un esempio accennando alla grande ristrutturazione delle funzioni cerebrali occorsa col graduale avvento della scrittura, dell’alfabeto e con la supremazia del visivo sull’uditivo. Forse c’è molto da scoprire nei documenti antichi sulla mente dell’uomo del passato se sapremo interpretarli nella prospettiva giusta. 
Mecacci L., “Identikit del cervello”, Laterza, pag. 162


Il Dalai Lama, un pacifista che gioca con i soldatini

Tenzin Uyatso, il Dalai Lama del Tibet, è stato identificato a due anni di età come la quattordicesima reincarnazione del Buddha della compassione. E stato condotto a Lhasa e educato da monaci devoti che lo hanno istruito in filosofia, medicina e metafisica. Nel 1950 è divenuto il leader spirituale e secolare in esilio del popolo tibetano. Pur non avendo un potere concreto, è riconosciuto come uno statista di livello mondiale per la sola forza della sua autorità morale e nel 1989 ha ricevuto il premio Nobel per la pace. Nessun essere umano potrebbe essere più predisposto, per il modo in cui è cresciuto e per il ruolo che gli è stato affidato, ad avere pensieri nobili e puri.
Nel 1993 un giornalista del «New York Times» gli ha chiesto di parlare di sé. Il Dalai Lama ha raccontato che da ragazzo amava le armi giocattolo e specialmente il suo fucile ad aria compressa. Ora che era adulto, si rilassava guardando fotografie di campi di battaglia e aveva appena ordinato una storia illustrata in trenta volumi della Seconda guerra mondiale edita da Time-Life. Come a tutti ovunque, gli piace studiare immagini di dispositivi militari quali carri armati, aeroplani, navi da guerra, sommergibili e soprattutto portaerei. Fa sogni erotici e si sente attratto dalle belle donne, tanto che spesso deve ricordare a se stesso «sono un monaco!». Nulla di tutto ciò gli ha impedito di essere uno dei grandi pacifisti della storia. E, nonostante l’oppressione di cui è vittima il suo popolo, rimane un ottimista.
Pinker S., “Come funziona la mente”, Mondadori, pag. 557


Visualizzare un problema come immagine

 

Einstein: “Nessuno scienziato ha mai pensato per formule.” 
Lo scopritore della relatività era capace di visualizzare le grandi leggi della fisica. Si immaginò di essere seduto su un raggio di luce e di viaggiare alla velocità della luce, e iniziò a descrivere il mondo come lo vede un fotone.


L’immagine mentale attinge alla sola memoria, per questo può ristrutturarsi di continuo

Le immagini mentali sono mutevoli, facili da trasformare, sono funzionalmente informali e indefinite, non restano le stesse per molto, scorrono veloci come i fotogrammi di uno spot.
Se si chiede a se stessi cosa accade nella propria mente quando si pensa ad una “mucca”, il concetto si presenta in un contesto vuoto o puramente accidentale, e il risultato sarà variabile. L’immagine di una mucca potrebbe essere “un rettangolo allungato con una certa espressione facciale, una specie di broncio esagerato” e questa immagine visiva mentale poggia su tratti mai menzionati nella definizione della mucca.
Un concetto non ha la persistenza relativamente stabile di un oggetto. La pagina di libro è soggetta a tutte le fluttuazioni dell’attenzione e della relazione con altri miei pensieri; ma la salda base garantita dallo stimolo fisico del nero su bianco, resta finchè io lo guardo. L’immagine mentale non è ancorata ad alcuna base indipendente ed obiettiva di questo genere, e attinge alla sola memoria. È aperta all’irrompere dell’esperienza di una vita intera. 
Tornando alla mucca, basta pensare al probabile effetto delle mucche sul traffico automobilistico in India, e l’immagine comincia a precisarsi.

Pensare esige immagini, e le immagini contengono pensiero, ma in uno stadio elastico che il contesto definisce e precisa. 
Non si pensa mai usando un solo concetto; la presenza di più concetti contemporaneamente illumina la scena mentale: “mucche”, “India”, “auto”, varie parole usate insieme, cominciano a somigliare ad un pensiero degno di questo nome.
Probabilmente la mucca in mezzo al traffico manterrà la posizione del prototipo - che grosso modo potrebbe essere “animale di profilo con la testa girata verso chi guarda” - però, rispetto alla necessaria informalità del modello mentale, avrà acquisito varie caratteristiche, ad esempio saràbianca, mentre il prototipo aveva un colore indefinito.


La metafora di “riflettere”

Il termine “riflettere” ci fa venire in mente lo specchio. La coscienza, dopo aver riflettuto, è riuscita a creare un’immagine riflessa – un modello mentale – del mondo. In questi “plastici in miniatura” dentro il cervello, la coscienza può seguire gli spostamenti della selvaggina in una mappa geografica celebrale, che la coscienza è capace di visualizzare a volo d’uccello.


Visualizzare un problema come immagine

 

Einstein: “Nessuno scienziato ha mai pensato per formule.” 
Lo scopritore della relatività era capace di visualizzare le grandi leggi della fisica. Si immaginò di essere seduto su un raggio di luce e di viaggiare alla velocità della luce, e iniziò a descrivere il mondo come lo vede un fotone.


L’immagine mentale attinge alla sola memoria, per questo può ristrutturarsi di continuo

Le immagini mentali sono mutevoli, facili da trasformare, sono funzionalmente informali e indefinite, non restano le stesse per molto, scorrono veloci come i fotogrammi di uno spot.
Se si chiede a se stessi cosa accade nella propria mente quando si pensa ad una “mucca”, il concetto si presenta in un contesto vuoto o puramente accidentale, e il risultato sarà variabile. L’immagine di una mucca potrebbe essere “un rettangolo allungato con una certa espressione facciale, una specie di broncio esagerato” e questa immagine visiva mentale poggia su tratti mai menzionati nella definizione della mucca.
Un concetto non ha la persistenza relativamente stabile di un oggetto. La pagina di libro è soggetta a tutte le fluttuazioni dell’attenzione e della relazione con altri miei pensieri; ma la salda base garantita dallo stimolo fisico del nero su bianco, resta finchè io lo guardo. L’immagine mentale non è ancorata ad alcuna base indipendente ed obiettiva di questo genere, e attinge alla sola memoria. È aperta all’irrompere dell’esperienza di una vita intera. 
Tornando alla mucca, basta pensare al probabile effetto delle mucche sul traffico automobilistico in India, e l’immagine comincia a precisarsi.

Pensare esige immagini, e le immagini contengono pensiero, ma in uno stadio elastico che il contesto definisce e precisa. 
Non si pensa mai usando un solo concetto; la presenza di più concetti contemporaneamente illumina la scena mentale: “mucche”, “India”, “auto”, varie parole usate insieme, cominciano a somigliare ad un pensiero degno di questo nome.
Probabilmente la mucca in mezzo al traffico manterrà la posizione del prototipo - che grosso modo potrebbe essere “animale di profilo con la testa girata verso chi guarda” - però, rispetto alla necessaria informalità del modello mentale, avrà acquisito varie caratteristiche, ad esempio saràbianca, mentre il prototipo aveva un colore indefinito.


Desidero ringraziarla, caro signore. Per quindici anni ho sostenuto una tesi sbagliata

Ma, al di là dell’arroganza, noi scienziati se non altro partiamo dal presupposto che la scienza progredisca per confutazione delle ipotesi. Con il gusto del paradosso che gli era tipico, Konrad Lorenz, padre dell’etologia, disse una volta che gli piaceva molto smentire almeno una piccola ipotesi al giorno, prima di colazione. Passando dal paradosso alla realtà, resta vero che gli scienziati, diversamente da medici, avvocati e politici, si guadagnano il rispetto dei colleghi ammettendo pubblicamente i propri errori. Una delle esperienze più formative dei miei anni di università a Oxford la ebbi quando un visiting professor americano presentò prove che demolivano irreparabilmente la teoria cara a un anziano, autorevolissimo luminare del nostro dipartimento di zoologia, una teoria che era stata insegnata a tutti noi. Al termine della conferenza il vecchio si alzò, raggiunse a grandi passi il podio, strinse calorosamente la mano all’americano e disse con voce vibrante e sonora: «Desidero ringraziarla, caro signore. Per quindici anni ho sostenuto una tesi sbagliata». Noi applaudimmo fino a spellarci le mani. In quale altra professione si è così magnanimi quando ci si scopre in errore?
Dawkins R., “L’arcobaleno della vita”, Mondatori, pag. 34


Non vi è alcuna utilità in questo, si tratta solo di una occasione per concedermi il piacere di pensare

Citiamo dei passi da una lettera che Einstein scrisse da Berlino nella primavera del 1918 all’amico Heinrich Zangger di Zurigo. La teoria generale della relatività era già stata elaborata, ma la conferma ottenuta durante l’eclisse del 1919 e la fama mondiale erano ancora di là da venire. Il figlio maggiore di Einstein, allora quattordicenne, dimostrava un vivo interesse per l’ingegneria e la tecnologia:
«Anch’io dovevo diventare ingegnere. Ma trovai intollerabile l’idea di applicare il genio creativo a problemi che non fanno che complicare la vita quotidiana - e tutto ciò unicamente al triste scopo di guadagnare denaro. Pensare solo per il piacere di pensare, come nella musica! ... Quando non ho qualche problema particolare cui dedicarmi, mi diverto a ricostruire le prove di teoremi matematici e fisici che mi sono noti ormai da tempo. Non vi è alcuna utilità in questo, si tratta solo di una occasione per concedermi il piacere di pensare.»
Dukas H. Hoffmann B., “Albert Einstein il lato umano“, Einaudi, pag. 16


Sostituire le espressioni ripetitive con appelli a una funzione comune

Per rendere un programma potente, efficiente e in grado di evolversi è necessario: «Sostituire le espressioni ripetitive con appelli a una funzione comune». Questo principio di progettazione diviene ancora più importante nella misura in cui la funzione si complica e da una formula di una riga passa a un sottoprogramma a più stadi. Esso ha ispirato queste altre massime, tutte, si direbbe, seguite dalla selezione naturale nel progettare la nostra mente modulare a più formati.
Modularizzare.
Usare sottoprogrammi.
Far sì che ogni modulo svolga una sola funzione bene.
Assicurarsi che ogni modulo nasconda qualcosa.
Collocare input e output in sottoprogrammi.
Un secondo principio trova espressione nella massima:
Scegliere la rappresentazione dei dati che rende il programma semplice”.

(già c’è)
L’evoluzione dei diversi formati di rappresentazione usati dalla mente umana (immagini, sequenze fonologiche, alberi gerarchici, mentalese) è dovuta al fatto che consentono aprogrammi semplici (cioè stupidi demoni o omuncoli) di calcolare, a partire da essi, cose utili.
Pinker S., “Come funziona la mente”, Mondadori, pag. 99


I pensieri come le onde di colore dei calamari

Avete mai guardato un calamaro cambiare colore?
Le immagini televisive appaiono a volte su giganteschi schermi Led (sigla di «diodo a emissione luminosa»). Invece di uno schermo fluorescente che il fascio elettronico esplora da un punto all’altro, nel Led vi è un’ampia serie di piccole radiazioni luminose controllabili in maniera indipendente. Queste radiazioni luminose sono attivate o disattivate singolarmente, sicché, da lontano, l’intera matrice brilla di immagini in movimento. La pelle del calamaro è come uno schermo Led, solo che al posto dei segnali luminosi ha migliaia di minuscole borse di pigmento, ognuna delle quali è indotta dal suo muscolo a far migrare il pigmento. Come un burattinaio che azionasse con molteplici fili ciascun distinto muscolo, il sistema nervoso del calamaro controlla la forma, e quindi la visibilità, di ogni borsa.
In teoria, se i nervi che conducono ai distinti pixel di pigmento venissero intercettati e stimolati elettricamente attraverso un computer, sulla superficie del calamaro si potrebbe proiettare un film di Charlie Chaplin. Il calamaro non lo fa, ma in effetti il suo cervello controlla la rete nervosa con rapidità e precisione, e il «cinema» che appare sulla cute è spettacoloso. Onde di colore si rincorrono sulla superficie del mnllusco come nubi in un film dove le immagini fossero accelerate; e vortici si susseguono rapidi sullo schermo vivente. L’animale segnala le sue mutevoli emozioni: in un attimo il marrone scuro cede il posto a un bianco pallido e spettrale, in una veloce successione di ombreggiature fatte di strisce e punti interconnessi. Quanto a mutamento di colore, di fronte ai calamari i camaleonti appaiono meri dilettanti.
Il neurobiologo americano William Calvin è uno degli scienziati contemporanei più impegnati nello studio della natura del pensiero. Come altri prima di lui, ha ipotizzato che i pensieri non risiedano in alcuna regione specifica del cervello, ma siano moduli di attività che si susseguono sulla sua superficie: unità che, reclutando unità vicine, le trasformerebbero in popolazioni. Queste popolazioni diverrebbero il pensiero stesso e competerebbero darwinianamente con popolazioni rivali rappresentanti pensieri alternativi. Noi non vediamo tali moduli di attività, ma forse li vedremmo se i neuroni si illuminassero mentre sono attivi: in quel caso, forse, la corteccia cerebrale somiglierebbe alla superficie corporea del calamaro. Il calamaro pensa con la pelle? Quando cambia all’improvviso colore, per esempio, noi supponiamo che lo faccia perché ha cambiato umore e intende segnalare il fenomeno a un altro calamaro. Un mutamento di colore annuncia che il mollusco è passato, poniamo, dall’aggressività alla paura. È logico presumere che il passaggio da una sensazione all’altra abbia luogo nel cervello e che il cambiamento di colore sia la manifestazione visibile di «pensieri» interni esternati a scopo di comunicazione.
Dawkins R., “L’arcobaleno della vita”, Mondatori, pag. 15


Via: www.ilpalo.com

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