Saturday 20 December 2008

Autoconsapevolezza acquisita

Quante cose sai? Il padre di James Watt

Figlia. Papà, quante cose sai?
Padre. Una volta conoscevo un ragazzino che chiese a suo padre: «I padri sanno sempre più cose dei figli?” E il padre rispose: “Sì”. Poi il ragazzino chiese: “Papà, chi ha inventato la macchina a vapore?” 
E il padre: “James Watt”. 
E allora il figlio gli ribatté: «Ma perché non l’ha inventata il padre di James Watt?”.

Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 55


Il cervello si sviluppa a spese dell’intestino

Il tessuto neurale consuma il 20 per cento circa della produzione totale di energia del corpo.
Come possiamo quindi permetterci un cervello grande se non abbiamo una produzione extra di energia per alimentarlo?
La risposta, come hanno sottolineato recentemente Leslie Aiello e Peter Wheeler, è che noi abbiamo un intestino molto minore di quello che ci attenderemmo da un mammifero della nostra taglia. Per rendere possibile l’aumento della grandezza del cervello, l’energia extra richiesta per alimentarlo doveva venire dalla riduzione del consumo di energia di un organo interno.
Il problema è che cuore, reni e fegato sono strettamente connessi alle dimensioni corporee. Un cuore più piccolo pomperebbe meno sangue nel sistema, cosicché i muscoli non potrebbero lavorare con la stessa efficienza; reni o fegato più piccoli non potrebbero assicurare una depurazione del sangue adeguata. In breve, se si vuole un grosso cervello, l’unico organo da cui ci si possa davvero permettere di prendere l’energia extra è l’intestino.
Il guaio, naturalmente, è che non si possono ridurre le dimensioni dell’intestino senza ridurre il ritmo con cui si assorbe energia dal cibo che si ingerisce. E’ qui l’ostacolo.

C’è però un modo per aggirare in parte questo limite, ed è quello trovato dagli ominidi ancestrali. Si può ridurre l’estensione del proprio intestino senza ridurre la propria assunzione di energia,consumando cibi più nutrienti o contenenti sostanze nutritive in forma più facilmente assimilabile. In tal modo l’intestino deve lavorare di meno per estrarre la medesima quantità di sostanze nutritive.
Anche nei primati c’è un preciso rapporto fra la proporzione di foglie contenute nella dieta e tempo dedicata al riposo. La quantità di tempo che i mangiatori di foglie hanno a disposizione per attività di tipo sociale è molto piccola (dal 2 al 5 per cento del loro tempo) rispetto a quella dei mangiatori di frutta, che possono dedicare alla pulizia sociale della pelle fino al 15 per cento della loro giornata
Dunbar R., “Dalla nascita del linguaggio alla Babele delle lingue”, Longanesi, pag. 159


Lo specchio sociale: i primitivi e le fotografie

Poiché non disponevano né di superfici metalliche, né di fiumi capaci di restituire un nitido riflesso, si riteneva che i Biami, una tribù Papua della Nuova Guinea, non avessero mai visto la propria immagine. Ciò ne fece l’ideale oggetto di studio di Edmund Carpenter, un antropologo interessato agli aspetti visivi della propria disciplina che aveva deciso di documentare le prime reazioni umane in presenza di uno specchio.
“Rimasero paralizzati: dopo la prima reazione allarmata — si coprirono la bocca e mossero il capo da un lato e dall’altro — rimasero impietriti a fissare la propria immagine, e solo i muscoli dell’addome tradivano la loro grande tensione. AI pari di Narciso erano totalmente affascinati dal proprio riflesso. 
Ma pochi giorni dopo si tastavano e si ispezionavano senza timore davanti allo specchio.

Le fotografie scattate con la Polaroid si rivelarono ancora più sconcertanti. All’inizio i Biami non capivano: l’antropologo dovette insegnare loro a interpretare l’immagine indicando il naso sulla foto e subito dopo toccando il naso reale, e così via per le altre parti del corpo. Con il riconoscimento venne la paura. L’individuo ritratto tremava incontrollabilmente, distoglieva lo sguardo, sgusciava via e andava a rifugiarsi per conto proprio con la fotografia fortemente premuta contro il petto. Poi restava immobile con lo sguardo fisso sul ritratto anche per una ventina di minuti.

A causa di questa reazione. Carpenter parla di «terrore dell’autocoscienza» Ma questo stadio veniva superato presto, e nell’arco di pochi giorni gli abitanti del villaggio avevano allegramente imparato a filmarsi da sé: si fotografavano l’un l’altro, si riascoltavano al registratore e molto orgogliosamente portavano in giro sulla fronte il proprio ritratto.

E’ evidente che i Biami non erano privi dell’autocoscienza prima che l’antropologo mettesse piede nel loro villaggio. L’unico effetto degli specchi e delle fotografie è acuire la coscienza di sé ed esternarne la presenza. L’autocoscienza è la parte più essenziale della natura umana. Senza autocoscienza non saremmo capaci di empatia cognitiva, perché essa richiede di fare distinzione fra sé e gli altri, e di rendersi conto che un altro ha un sé simile al nostro.

Non c’è da stupirsi che le reazioni allo specchio abbiano attratto anche l’attenzione degli studiosi degli animali. Mentre quasi tutti i mammiferi che fanno particolare assegnamento sulla vista tentano lì per lì di toccare l’immagine riflessa o esplorano la parte posteriore dello specchio, solo gli individui di due specie non umane — lo scimpanzé e l’orango — sembrano capire di star guardando se stessi. 
La particolarità di queste due antropomorfe è stata riconosciuta già da parecchio tempo. Nel 1922 Anton Portieljie, un naturalista olandese, osservò che mentre le scimmie non antropomorfe non colgono la relazione fra sé e il proprio riflesso, un orango «per prima cosa guarda attentamente l’immagine, ma poi osserva anche il proprio didietro e il tozzo di pane che vi sono riflessi… palesemente comprendendo l’uso di uno specchio.”
de Waal F., “Naturalmente buoni”, Garzanti, pag. 91


Il cervello compie molte azioni senza che ne siamo coscienti

Anche nel caso in cui sia coinvolta la coscienza, il cervello può portare a termine una considerevole quantità di processi inconsci prima di inviare le informazioni alla coscienza. Nel processo visivo, per esempio, più di trenta canali separati registrano aspetti diversi dell’immagine proiettata sulla retina: profili, movimenti, colori, ombre, e così via. Tutti questi messaggi vengono integrati in un’immagine coerente attraverso un processo di legame che viene portato a termine in modo del tutto inconscio. Il risultato finale di questo processo complicato è l’immagine che noi "vediamo".
De Duve Christian, "Come evolve la vita", Raffaello Cortina Editore, pag. 287


La coscienza è una presenza concomitante di certe attività neuronali

La coscienza non può essere spiegata in termini fisici noti. E’ un’esperienza interiore,inaccessibile alle ricerche esterne. La coscienza non può essere registrata. Tutto quello che si può fare è registrare le manifestazioni biochimiche sottostanti, osservare i comportamenti a esse associati e cercare di stabilire correlazioni fra quelle manifestazioni, i comportamenti e i fenomeni coscienti. Anche questo richiede la partecipazione di individui che si sottopongano agli esperimenti e ci informino su ciò che accade nelle loro menti. Tutto ciò che possiamo sapere sulle menti degli altri lo apprendiamo dalle loro parole e per analogia con la nostraesperienza personale.
La coscienza permette l’accesso a nozioni astrattecome verità e falsità, bontà e cattiveria, e  ci consente di comunicare agli altri, attraverso il linguaggio e l’arte, la nostra personale concezione di queste nozioni.

I nostri ragionamenti possono dipendere in gran parte da operazioni inconsce, attraverso cui vengono selezionati, combinati, confrontati, pesati e altrimenti processati, i fenomeni neuronali che stanno alla base dei concetti. Questo accade prima che il risultato venga consegnato alla coscienza, per formare ciò che noi percepiamo come la sostanza dei nostri pensieri. 
La coscienza è proprio una presenza inseparabile e concomitante di certe attività neuronali che si verificano nella corteccia cerebrale, una sorta di “bagliore o mormorio” che risulta sempre presente assieme a quelle attività. 
De Duve Christian, “Come evolve la vita”, Raffaello Cortina Editore, pag. 288


Il pensatore è un esaminatore di secondo grado, interroga solo i candidati che hanno già superato un precedente esame

Dice il matematico Henni Poincaré:
«Cos’è la creazione matematica? Essa non consiste nel produrre nuove combinazioni di entità matematiche già note. Questa è cosa che chiunque potrebbe fare, ma le combinazioni così prodotte sarebbero in numero infinito, e per lo più prive di ogni interesse. Creare consiste esattamente nel non produrre combinazioni inutili, e nel produrre quelle che sono utili, e che sono una piccola minoranza. 
L’invenzione è discernimento, scelta. 
I fatti matematici degni di essere studiati sono quelli che, in virtù della loro analogia con altri fatti, sono capaci di condurci alla conoscenza di una legge matematica, proprio come i fatti sperimentali ci portano alla conoscenza di una legge fisica. Sono quelli che ci rivelano parentele insospettate tra altri fatti, già noti da tempo, ma erroneamente creduti estranei gli uni agli altri.
Tra le combinazioni scelte, le più feconde spesso saranno quelle formate da elementi tratti da domìni assai distanti. Non intendo, con questo, che per l’invenzione basti mettere assieme oggetti quanto più possibile disparati: la maggior parte delle combinazioni così formate sarebbe del tutto sterile. Ma alcune di queste combinazioni, molto rare, sono le più fruttuose.
Ho detto che inventare è scegliere; ma il termine, forse, non è completamente esatto. Esso fa pensare a un acquirente dinanzi al quale si dispieghi un gran numero di esemplari e che li esamini, l’uno dopo l’altro, per operare una scelta. Nel nostro caso gli esemplari sarebbero così numerosi che non basterebbe una vita intera per esaminarli tutti.

In realtà le cose non stanno così. Le combinazioni sterili neppure si presentano alla mente dell’inventore. Mai, nel dominio della sua coscienza, si manifestano combinazioni che non siano davvero utili, salvo alcune che egli rigetta ma che hanno qualche apparenza di utilità. Le cose procedono come se l’inventore fosse un esaminatore di secondo grado, incaricato di interrogare soltanto i candidati che hanno già superato un precedente esame».

La prospettiva di Poincaré è simile a quella suggerita da Damasio. “Non è necessario applicare il ragionamento all’intero campo delle possibili opzioni, poiché ha luogo una preselezione a volte celata, a volte aperta. C’è un meccanismo biologico che effettua la preselezione, esamina i candidati e consente solo ad alcuni di presentarsi all’esame finale. E si noti che la mia proposta vale, prudenzialmente, per il dominio personale e per quello sociale, anche se le parole di Poincaré suggeriscono che potrebbe essere estesa ad altri domini.”
Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi , pag. 265


La mente degli altri esiste dai tre anni in su

A quattro anni i bambini superano un test molto severo sulla conoscenza della mente altrui: sanno attribuire ad altri credenze che, per quanto li riguarda, ritengono false. In un tipico esperimento, i bambini aprono una scatola di confetti Smarties e sono sorpresi di trovarvi dentro delle matite. A questo punto si chiede loro che cosa si aspetterà di trovare nella scatola una persona che entri nella stanza, e i bambini, benché sappiano che la scatola contiene delle matite, si tengono l’informazione per sé, si mettono nei panni del nuovo venuto e rispondono: «Smarties». I bambini di tre anni hanno più difficoltà a tenere quello che sanno fuori dal discorso; insistono che il nuovo venuto si aspetterà di trovare delle matite nella scatola di confetti. Ma è improbabile che manchi loro l’idea stessa di altre menti; quando la risposta errata è resa meno allettante o i bambini sono indotti a riflettere un po’ di più, anche loro attribuiscono convinzioni sbagliate agli altri. I risultati sono identici in tutti i paesi in cui i bambini sono stati sottoposti a test.
Pinker S., “Come funziona la mente”, Mondadori, pag. 354


Il bambino capisce che esistono altri cervelli

I bambini in età prescolare sviluppano altresi un forte senso di sé che si radica in misura notevole nel fisico. Ciascuno di loro raggiunge una certa dimensione e una certa statura, ha capelli e occhi di un colore particolare, veste certi abiti ed è affezionato a certe cose. Ma la conoscenza di sé va oltre questo piano superficiale. Il bambino di cinque o sei anni già sa di essere migliore in certe cose che in altre, di avere certi desideri e certe paure, di essere capace di obbedienza e di disobbedienza, di egoismo e di altruismo (anche se non userebbe queste parole per dirlo).
Di particolare importanza per la nostra indagine è il fatto che il bambino di questa età già lavora alla messa a punto di incipienti teorie di sé come agente impegnato sul terreno dell’apprendimento e del pensiero. Con suo disappunto, egli dimentica certe cose, mentre ne ricorda facilmente altre; se pratica un’attività, è perché si aspetta che l’esercizio gli consenta di progredire, mentre altre attività gli sembrano "senz’altro troppo difficili".


Lo sperimentatore toglie i cioccolatini dalla scatola e mette delle matite

Lo studio tipico prevede che un giovane soggetto osservi una sequenza di azioni compiute sotto i suoi occhi dallo sperimentatore e da un complice. Bambino e complice, per esempio, vedono entrambi una scatola di cioccolatini sulla tavola. Poi il complice lascia la stanza. In sua assenza, lo sperimentatore toglie i cioccolatini dalla scatola e al loro posto mette delle matite. Quando il complice torna, si chiede al bambino che ha assistito alla scena che cosa il complice si
aspetti di trovare nella scatola. Fino a quattro anni, il bambino insisterà che il complice si aspetta di trovarci delle matite. Poiché il bambino ha assistito alla sostituzione dei cioccolatini con le matite, sembra incapace di concepire l’idea che il complice dello sperimentatore possa non saperlo. In altre parole, assume che tutte le menti abbiano accesso alle stesse informazioni.
A quattro anni, però, si ha una svolta cruciale. Il bambino diventa capace di rendersi conto del fatto che il complice non ha assistito allo scambio e quindi che continua a credere, falsamente, che la scatola contenga ancora i cioccolatini. Dando la risposta corretta, il bambino che ha assistito alla scena dimostra di essere in grado di rappresentarsi il contenuto di un’altra mente: in questo caso, la perdurante falsa credenza che la scatola contenga i cioccolatini che c’erano all’inizio.
La capacità di rendersi conto del fatto che un’altra persona ha un complesso di credenze diverso dal proprio rappresenta un progresso notevole, cosi come rappresenta un’autentica pietra miliare l’acquisizione della capacità di rendersi conto di aver avuto in passato un complesso di credenze incompatibili con quelle attuali. Una volta stabilito il principio della pluralità delle strutture di credenza, esiste la possibilità di elaborare "mappe" più finemente differenziate delle credenze degli altri, del tipo di quelle che si fanno apprezzare in un dramma come il Riccardo II Questa sensibilità, inoltre, sottolinea la capacità di andare al di là degli stereotipi e di rendersi conto che gli altri possono legittimamente vedere il mondo in modi molto lontani dalla propria prospettiva.


Macchia sul naso e poi lo specchio

Grazie a un’abile tecnica sperimentale escogitata da Gordon Gallup per lo studio di primati, abbiamo un modo per accertare quand’è che il neonato umano perviene per la prima volta a vedere se stesso come un’entità separata, una persona incipiente. È possibile, senza che il bambino se ne renda conto, applicargli un minuscolo segno sul naso - per esempio una macchiolina di rosso - e poi studiarne le reazioni quando si guarda allo specchio. Nel primo anno di vita il bambino si diverte alla vista della macchia rossa, ma a quanto pare la considera semplicemente come un’interessante decorazione su qualche altro organismo che egli osserva nello specchio. Nel secondo anno di vita, però, il bambino reagisce diversamente alla vista della colorazione estranea. Il bambino si tocca il naso e si comporta in modo impacciato o timoroso quando vede questa macchia rossa inattesa in quella che egli riconosce ora come la sua propria anatomia. La consapevolezza di avere un corpo fisicamente separato e un’identità distinta non sono, ovviamente, le uniche componenti dell’incipiente conoscenza di sé. Il bambino comincia anche a reagire al proprio nome, a riferirsi a se stesso per nome, ad avere progetti e piani definiti che cerca di eseguire, a sentirsi bravo quando ha successo, a provare disagio quando viola certe norme che altri hanno fissato per lui o che ha fissato egli stesso per Sé. Tutte queste componenti del senso iniziale della persona fanno la loro prima comparsa nel secondo anno di vita.


Il bambino da due a cinque anni

Durante il periodo da due a cinque anni di età il bambino passa per un’importante rivoluzione intellettuale, quando diventa in grado di usare vari simboli per riferirsi a se stesso ("io", "mio"), ad altri individui ("tu", "lui", "la mamma"), ("hai paura", "sei triste") e alle sue proprie esperienze ("il mio compleanno", "la mia idea"). Parole, immagini, gesti e numeri sono fra i molteplici veicoli che si usano per pervenire a conoscere il mondo simbolicamente, oltre che attraverso azioni fisiche dirette su di esso e attraverso discriminazioni sensoriali su di esso. 
Un modo in cui quest’abilità emergente di simbolizzazione viene rivolta verso lo sviluppo personale è attraverso l’esplorazione di diversi ruoli visibili (e vitali) nella comunità. Attraverso la parola, la simulazione del gioco, gesti, disegni e via dicendo, il bambino piccolo si cimenta in taluni aspetti dei ruoli della madre e del figlio, del medico e del paziente, del poliziotto e del ladro, dell’insegnante e dell’allievo, dell’astronauta e del marziano. Sperimentando con questi frammenti di ruoli, il bambino perviene a conoscere non solo quale comportamento sia associato a questi individui, ma anche qualcosa su come ci si sente a occupare le loro nicchie caratteristiche. Al tempo stesso, i bambini pervengono a correlare il comportamento e gli stati di altre persone con le loro proprie esperienze personali: identificando ciò che è positivo o negativo, angoscioso o distensivo, ciò che dà un senso di potenza o di impotenza, i bambini fanno un importante passo avanti nel definire che cosa sono e che cosa non sono, che cosa desiderano essere e che cosa preferirebbero evitare. Il proprio sesso di appartenenza è una forma particolarmente importante di identificazione che viene confermata durante questo periodo di tempo.


Noi dobbiamo percepirci come "percettori in azione"


Tutti percepiamo a ogni istante milioni di cose intorno a noi, le registriamo automaticamente, ma non ne prendiamo veramente coscienza, a meno che non ci sia un particolare insolito o il riflesso di qualcosa che siamo preparati a vedere. Non potremmo mai prendere coscienza di tutto e ricordare tutto, perché la nostra mente si riempirebbe di tanti dettagli inutili che non riusciremmo più a pensare. Dobbiamo scegliere tra le percezioni che ci arrivano, solo quelle che siamo stati educati a percepire e il risultato di tale scelta, - che chiamiamo "coscienza", - non è mai identico alle percezioni, perché il processo di selezione cambia. Non si vede mai il mondo ma solo ciò che del mondo si percepisce. Noi prendiamo una manciata di sabbia dal panorama infinito delle percezioni e la chiamiamo mondo, eppure è necessario vedere che, nel bel mezzo del paesaggio, come sua parte integrante che deve essere capita, qualcuno sta dividendo la sabbia in mucchi. Guardare il paesaggio senza vedere quel qualcuno è come non guardarlo affatto.


Il mutamento che ha fatto la differenza: cinque ipotesi

Nel caso del cervello umano, credo che il fenomeno sia stato esplosivo come la reazione a catena della bomba atomica o l’evoluzione della coda dell’uccello del paradiso, e che quindi abbia seguito un tracciato diverso da quello coadattativo della mosca che imita il ragno. L’ipotesii è affascinante, perché spiegherebbe come mai, tra diverse specie di primati africani dotate di un cervello grande come quello dello scimpanzé, una sola, di colpo, abbia distanziato tutte le altre in misura estrema e senza motivo evidente. È come se un evento casuale avesse spinto il cervello degli ominidi oltre una soglia, qualcosa di equivalente alla massa critica, e come se poi la «mongolfiera» fosse esplosa incontrollata a causa del meccanismo di autoalimentazione.
In che cosa sarebbe potuto consistere un simile processo? L’ipotesi che ho avanzato nel corso delle mie Christmas Lectures alla Royal Institution era quella della «coevoluzione software-hardware». Come lascia capire l’espressione, ho cercato di spiegare il fenomeno
con la similitudine del computer, anche se purtroppo la legge di Moore non sembra trarre origine da alcun meccanismo di autoaliInentazione. Il potenziamento dei circuiti integrati registratosi nel corso degli anni pare sia stato causato da una caotica serie di cambiamenti, il che rende ancora più singolare il fatto che vi sia stato un costante miglioramento di tipo esponenziale. È però chiaro che c’è una coevoluzione software-hardware alla base della storia dei progressi informatici: in particolare, c’è qualcosa che ricorda da vicino il superamento esplosivo di una soglia critica dopo un periodo di «bisogno» represso.
Nei primi tempi del personal computer, veniva offerto un software di word processing alquanto primitivo: non c’era neanche l’a capo automatico. Allora ero maniaco della programmazione del codice macchina e (mi vergogno un poco ad ammetterlo) arrivai al punto da ideare un mio programma di scrittura, Scrivener, Scrivano, di cui mi servii per la stesura di L’orologiaio cieco, libro che avrei finito molto prima senza quel prezioso supporto... Mentre mettevo a punto il mio software, ero sempre più frustrato all’idea di dover usare la tastiera per muovere il cursore lungo lo schermo; avrei voluto, semplicemente, puntarlo. Accarezzai l’idea di usare uno dei joystick che servivano per i videogame, ma non capivo in che modo adattarlo. Avevo la sensazione assai frustrante che il software che avrei voluto scrivere non potesse essere scritto per mancanza di un progresso fondamentale nell’hardware. In seguito scoprii che il congegno di cui avevo tanto bisogno, ma che non ero stato abbastanza intelligente da ideare, era già stato inventato da parecchio tempo ed era, come avrete capito, il mouse.
Il mouse, che rappresentava un progresso nell’hardware, fu concepito negli anni Sessanta da Douglas Engelbart, il quale previde che avrebbe reso possibile un nuovo tipo di software. Quest’ultimo, nella sua forma moderna, venne chiamato Graphical User Interface, o Cui, e fu messo a punto negli anni Settanta da un’équipe di brillanti tecnici al Palo Alto Research Center della Xerox, una vera e propria Atene del mondo moderno. Fu trasformato in successo commerciale dalla Apple nel 1983, e poi copiato da altre aziende che gli diedero nomi come VisiOn, Geni e Windows, oggi di gran lunga il più usato. Che cosa intendo dire? Intendo dire che nel mondo c’era bisogno di un software sofisticato, che questo bisogno non aspettava altro che di esplodere, ma dovette attendere un componente cruciale dell’hardware: il mouse. In seguito, la diffusione dell’interfaccia Cui indusse una nuova domanda di hardware più rapido e più adatto alle esigenze della grafica, e questo a sua volta consentì la messa a punto di un nuovo software più sofisticato capace di sfruttare la grafica veloce. La coevoluzíone software-hardware continuò e il suo ultimo prodotto è il Worldwide Web. Chissà che cosa ci offrirà la spirale esplosiva del futuro...
Affermava nel 1998 Nathan Myhrvold, direttore ricerche della Microsoft:
“Guardando avanti, dunque, vediamo che la capacità [del computer] verrà usata per innumerevoli cose. Perlopiù si hanno miglioramenti incrementali e progressive facilitazioni nell’uso degli strumenti, poi ogni tanto si supera una soglia e sì aprono orizzonti veramente nuovi. Questo successe quando fu ideata l’interfaccia utente grafica. Tutti i programmi e tutti gli output diventarono grafici: questo ci costò parecchio in termini di Cpu [unità centrale di elaborazione], ma ne valse la pena... Io ho una mia legge del software, la legge di Nathan, che dice che il software cresce più in fretta di quanto previsto dalla legge di Moore. Ed è per questo che esiste una legge di Moore.”
Tornando all’evoluzione del cervello umano, di che cosa abbiamo bisogno per completare la similitudine? Forse di un piccolo miglioramento nell’hardware, un lieve aumento delle dimensioni del cranio che sarebbe passato inosservato se non avesse consentito l’emergere di un nuovo software, il quale avrebbe scatenato a sua volta una proficua spirale coevolutiva... Il nuovo software modificò l’ambiente nel quale il cervello-hardware era soggetto alla selezione naturale; ciò produsse una forte pressione darwinìana che portò a migliorare e ingrandire l’hardware per sfruttare il nuovo software, sicché iniziò una spirale autoalimentante dai risultati esplosivi.
Quale potrebbe essere stato il grande progresso nel software? Quale fu l’equivalente biologico della Cui? Proporrò l’esempio a mio avviso più efficace di fenomeno atto a fungere da software di rottura, ma non mi sogno neanche lontanamente di sostenere che le cose siano andate veramente così. L’esempio efficace è quello del linguaggio. Nessuno sa come sia iniziato. Sembra che negli animali non umani non vi sia nulla di analogo alla sintassi ed è difficile immaginare suoi precursori evolutivi. Altrettanto oscura è l’origine della semantica, ossia delle parole e del loro significato. Suoni indicanti comandi quali: «Dammi da mangiare» o: «Vattene» sono usuali nel regno animale, ma noi umani facciamo ben di più. Come altre specie, abbiamo un limitato repertorio di suoni base, i fonemi, ma abbiamo la capacità unica di accostarli, di assemblarli in un numero incredibile di combinazioni perché designino cose il cui significato è fissato solo per convenzione arbitraria. Il linguaggio umano ha una semantica aperta: ricombinandosi, i fonemi generano un dizionario di parole praticamente infinito. E ha anche una sintassi aperta: le parole si possono ricombinare in un numero infinito di relative appositive ricorsive: «L’uomo sta arrivando. L’uomo che ha catturato il leopardo sta arrivando. L’uomo che ha catturato il leopardo che aveva ucciso le capre sta arrivando. L’uomo che ha catturato il leopardo che aveva ucciso le capre che ci danno il latte sta arrivando». Osservate come la frase si accresca nella parte centrale mentre l’inizio e la fine - le sue basi - restano uguali. Ciascuna delle relative appositive subordinate potrebbe accrescersi nello stesso modo, senza limite all’espansione ammissibile. Pare che questo ampliamento potenzialmente infinito, reso all’improvviso possibile da una singola innovazione sintattica, sia proprio soltanto del linguaggio umano.
Nessuno sa se il linguaggio dei nostri antenati attraversò una fase primitiva, caratterizzata da un vocabolario ristretto e una grammatica elementare, prima di evolvere a poco a poco fino alla situazione odierna, nella quale abbiamo migliaia di lingue assai complesse (secondo qualcuno, sarebbero tutte complesse nella stessa esatta misura, ma l’asserzione suona troppo ideologica per apparire realmente plausibile). Tendo a pensare che il processo sia stato graduale, ma non è detto che lo sia stato davvero: non ci sono abbastanza prove per dimostrarlo. Secondo alcuni, il linguaggio sarebbe nato all’improvviso, ideato quasi in senso letterale da un unico genio in un luogo e in un momento specifici. Che il fenomeno sia stato graduale o repentino, la coevoluzione software-hardware non cambia. Una società che ha il linguaggio è una società completamente diversa da quella che ne è priva, e registra pressioni selettive sui geni del tutto differenti da quelle riscontrabili nella seconda. Davanti a un’innovazione come il linguaggio, il cambiamento, per i geni, è molto superiore a quello che si verificherebbe se si instaurasse all’improvviso un’era glaciale o se apparisse d’un tratto sul territorio un terribile predatore. Quando il linguaggio comparve per la prima volta sulla scena sociale umana, ci fu senza dubbio una fortissima pressione dì selezione a favore degli individui geneticamente equipaggiati per sfruttare i nuovi orizzonti dischiusi dal «software». Mi viene in mente la conclusione del precedente capitolo, dove parlavo dei geni selezionati a sopravvivere nella «realtà virtuale condivisa» del cervello. È pressoché impossibile sopravvalutare i vantaggi di cui avrebbero potuto godere gli individui capaci di sfruttare al meglio le nuove prospettive linguistiche. Non solo il cervello diventò più grande per poter gestire il linguaggio, ma l’intero mondo in cui vivevano i nostri antenati si trasformò a causa di questa incredibile invenzione.
Questo però è solo un esempio - a mio avviso particolarmente efficace - della coevoluzione software-hardware: forse non fu il linguaggio a spingere l’encefalo umano oltre la soglia critica e a farlo espandere, anche se, personalmente, sono convinto che abbia avuto un ruolo importante nel fenomeno. Si dibatte da tempo se l’«hardware» della modulazione del suono nelle corde vocali fosse sufficiente allo sviluppo del linguaggio all’epoca in cui il cervello cominciò ad aumentare. Da alcuni reperti fossili pare di capire che, a causa della laringe ancora troppo alta, i nostri probabili antenati Homo habilis e Homo erectus non fossero capaci di articolare tutti i suoni vocalici che l’attuale gola ci mette a disposizione. Secondo alcuni studiosi, ciò dimostrerebbe che il linguaggio comparve tardi nell’evoluzione umana, ma a me sembra una conclusione priva di fantasia. Se ci fu una coevoluzione software-hardware, è evidente che il cervello non sarà stato l’unica «componente meccanica» a venire perfezionata nel corso del processo. Senza dubbio si evolse parallelamente anche l’apparato vocale, e la discesa evolutiva della laringe fu una delle modifiche di hardware determinate dal linguaggio stesso. Dire «poche vocali» non è come dire «niente vocali». Homo erectus avrà certo avuto un linguaggio che oggi suonerebbe monotono al nostro raffinato orecchio, ma che allora bastava a favorire l’evoluzione della sintassi e della semantica e la discesa autoalimentante della laringe. Tra l’altro, è probabile che l’erectus costruisse barche e usasse il fuoco, sicché non dobbiamo sottovalutarlo.
Ma lasciamo per un attimo da parte il linguaggio. Quali altre innovazioni del software avrebbero potuto spingere i nostri antenati oltre la soglia critica e scatenare la corsa coevolutiva? Permettetemi di ipotizzarne due che sarebbero potute nascere spontaneamente dal crescente interesse dei nostri progenitori per la caccia e l’alimentazione a base di carne. L’aÚricoltura è un’invenzione recente; la maggior parte dei nostri avi ominidi furono cacciatori e raccoglitori di bacche. I popoli che si procacciano tuttora da vivere con questo sistema antichissimo sono sovente dei formidabili battitori, capaci di dedurre dalle impronte, dalla vegetazione smossa, dagli escrementi e dai peli rimasti in giro che cosa sia successo, in dettaglio, in un’ampia area. Il disegno di un’impronta costituisce un grafico, una mappa, la rappresentazione simbolica di una serie di eventi accaduti nel mondo animale. Vi ricordate il nostro zoologo del futuro, la cui abilità nel ricostruire habitat passati a partire dall’analisi di un organismo e del suo Dna ci aveva portato a concludere che un animale è in fondo una descrizione del suo ambiente? Non potremmo affermare che altrettanto abile è un esperto battitore !Kung San, a cui basta «leggere» delle impronte sul suolo del Kalahari per capire in che modo un animale di una determinata specie si sia comportato nelle ultime ventiquattr’ore? Interpretate a dovere, simili tracce equivalgono a carte topografiche e fotografie, e mi sembra plausibile che la capacità di leggerle sia nata, nei nostri antenati, prima del linguaggio parlato.
Immaginiamo un gruppo di cacciatori Homo habilis intenti a organizzare una partita di caccia collettiva. In un affascinante e inquietante film per la tivù girato nel 1992, David Attenborough mostrava, ai tempi nostri, degli scimpanzé che tendevano un’imboscata a un colobo, per poi farlo a pezzi e mangiarselo. Non c’è motivo di pensare che gli scimpanzé si fossero comunicati i particolari di un piano dettagliato prima di iniziare la caccia, ma c’è ogni motivo di pensare che habilis avrebbe tratto vantaggio da tale capacità di comunicazione, ove questa si fosse resa possibile. In che modo avrebbe potuto rendersi possibile?
Supponiamo che un cacciatore, diciamo il capo, concepisca il piano di un’imboscata ai danni di un’antilope alcina e che voglia informarne i compagni. Potrebbe imitare il comportamento della preda mettendosi addosso la sua pelle, come fanno al giorno d’oggi certi cacciatori per svago o per rituale. Oppure potrebbe mimare le azioni che dovrebbero compiere i suoi sottoposti: «appostarsi» con aria assai furtiva, emettere un forte richiamo al momento dell’attacco, balzare con repentinità sulla «preda» nell’attimo culminante dell’agguato. Ma, non diversamente da qualsiasi moderno ufficiale dell’esercito, potrebbe fare qualcosa di più: indicare obiettivi e pianificare manovre su una mappa dell’area.
È facile supporre che i cacciatori habilis fossero tutti esperti battitori, in grado di riconoscere il disegno bidimensionale delle impronte e altre tracce; che fossero, insomma, ben più competenti, sotto il profilo visivo-spaziale, di quanto noi possiamo immaginare (a meno di non essere cacciatori !Kung San). Erano perfettamente abituati a vedere in una pista una carta geografica naturale del territorio e un grafico dei movimenti di un animale in un arco di tempo recente. Quale atto sarebbe potuto essere più spontaneo, per un capo, che afferrare una bacchetta e tracciare in terra un modello in scala degli eventi succedutisi in quell’arco di tempo, ossia una mappa indicante dei movimenti su una superficie?
Dawkins R., “L’arcobaleno della vita”, Mondatori, pag. 267


Via: www.ilpalo.com

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